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Autore Topic: miti da discutere e sfatare  (Letto 16578 volte)

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cavallo

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miti da discutere e sfatare
« il: 30 Luglio, 2007, 18:34:12 pm »
poiché qualcuno ha accusato gllaus di demenzialità per aver sostenuto he la violenza  ha caratterizzato alcuni movimenti ispirati da qualsiasi religione, incluso il Buddhismo, mi permetto di segnalarvi alcuni elementi (anteriori, in parte molto anteriori alla politica della RPC!) della storia di una regione che rappresenta un agomento delicato per i Cinesi: il TIBET.

1) Iniziamo da questo rapido sunto: http://spazioinwind.libero.it/popoli_an ... toria.html.

Qui ci sono i seguenti elementi interessanti:
1.1 Ralpa Chen (re buddhista, 817-836 d.C.) impone alle famiglie tibetane il gravosissimo peso di mantenere i monasteri e ne fa costruire oltre 1.000; contro di lui il fratello Langdarma (con ampio consenso fra i seguaci tibetani della religione tradizionale) fa un colpo di stato e lo uccide e diventato re (836-842) perseguita il Buddhismo  e lo sradica da gran parte del Tibet;
1.2 sono i Mongoli (Gengis Khan e poi Khubilai Khan) a riportare con la forza il Budhismo al potere in Tibet; il pezzo afferma che "pare" che Gengis Khan si sia convertito al Buddhismo Vajraiana (cioé il Buddhismo tantrico che domina in Tibet) e comunque fu lui a favorire quella corrente: engis Khan, lo sappiamo tutti, fu un bell'esempio di leader non-violento, vero? Sotolineo poi l frasi seguenti:
"Il sovrano mongolo Kublai Khan affidò il governo del Tibet al suo maestro: l’abate del monastero di Sakya (Sakya Pandita (1253)), a cui faceva capo la scuola Sakyapa. I mongoli e i tibetani fondarono così una sorta di patto sacerdotale in base al quale, mentre i tibetani si prendevano cura del benessere spirituale, i mongoli garantivano al Tibet la sicurezza temporale", qindi l'abate-capo dei monaci tibetani ebbe il potere come "proconsole" collaborazionista dai "non-violenti" Mongoli... in stile Manchukuo/Giappone.
1.3 dal 1349 al 1642 il Tibet é sconvolto da lotte interne, tutte guidate da feudatari in maggioranza buddhisti; nel 1642 a creare il sistema dei Dalai lama ed imporlo ai Tibetani fu un altro sovrano mongolo e il dalai Lama stavolta ricevette da lui ache il pieno potere temporale (sempre "non violenti" vero?)

In questo testo (peraltro fortemente anticinese e filo-Dalai Lama, quindi certo non anti-budhista):
http://www.amitaba.net/I%20viaggi%20di% ... 0Tibet.htm
si precisa che: "Langdarma fu ucciso a Lhasa da un monaco buddista travestito da sacerdote B÷n; seguì una guerra civile per la successione al trono che non ebbe un esito preciso ed il Tibet rimase per più di tre secoli privo di un re legittimo che fosse riconosciuto da tutte le famiglie feudali"; io non condano il tirannicidio e poteva essere giustissimo (ai miei occhi) trucidare Langdarnma (o essere invece sbagliato), ma un monaco buddhista regicida (che certo non agì da solo e per follia....) vi pare nonviolento?

Si dice poi:
"Tra il XV ed il XVII secolo nelle diverse scuole si svilupparono da un lato una ricca e profonda esperienza spirituale, ma dall’altro anche discordie e conflitti tra diverse fazioni in lotta per il potere, in quanto di fatto il potere temporale dei monasteri legava il successo di diversi gruppi di aristocratici alla predominanza di una scuola. In modo particolare la lotta tra le scuole Kagy³ e Gelug sfoci? a volte in vere ostilità militari, soprattutto a Lhasa" dunque in nome di controversie tra INTERPRETAZIONI DELO STESSO BUDDHISMO (come in Europa aveniva per le varie correnti cristiane nello stesso periodo) si combatterono GUERRE CIVILI TRA BUDDHISTI TIBETANI (nonviolenti?)

Passiamo ora a quest'altro testo:
http://www.tuttocina.it/mondo_cinese/098/098_fili.htm
Vorrei attirare l'attenzione su questo passaggio: "Il tipo di società che emerse dalla cosiddetta seconda diffusione del Buddhismo fu essenzialmente una società a carattere feudale in cui l'importanza assunta dal clero introdusse un elemento ierocratico che divenne dominante. Questa connotazione sociologica rimase nonostante tutte le travagliate vicende storiche praticamente immutata nel corso dei secoli.
Aristocrazia e clero furono le classi sociali che ebbero un effettivo ruolo nelle vicende del popolo tibetano" . usta tsi é acettata da tutti gli storici seri del mondo ma quando é sostenuta dai cinesi viene considerata falsa ed anti-tibetana!


Passiamo poi a questo testo:
http://www.milarepa.it/tibet.htm

Qui si ricorda che gli Inglesi nel 1903 entrarono a Lhasa e imposero un trattato di "libero commercio" (per loro) e che nel 1911 parteciparono ala cacciata delle guarnigioni cinesi (certamente non-nonviolento...) dal Tibet.

C'é poi la questione del rapporto fra gerarchia lamaista tibetana (e Dalai lama in persona) e nazismo che va almeno toccato.

Un testo come http://www.filosofiaedintorni.net/nazismoesoterico.htm, che dal linguaggio non pare certo essere contrario a tali commistioni,
include i seguenti elementi interessanti: "Il buddismo tibetano è stato in un certo senso ispiratore di una certa mistica nera sia delle SS che delle Waffen-SS; diverse furono le spedizioni alpinistiche delle SS in Tibet, la più famosa delle quali vide protagonista l'alpinista SS Heinrich Harrer, tutt'oggi vivo e amico di Sua Santità il Dalai Lama. Lo stesso professor Pio Filippani Ronconi, anch'egli (grazie a Dio) presente tra noi, che in gioventù militò come ufficiale nelle Waffen-SS italiane (divisione Granatieri SS Italiana), ricorda come importanti furono le discipline importate da quelle spedizioni e scrive nelle sue memorie :"....vi era, e non esagero affatto, l'elemento "mistico": quella primordiale "terribilità" nell'azione unita ad un'arcaicità di concezioni gerarchiche, per cui al centro di queste Unità combattenti esisteva un Ordine, come quelli dei Cavalieri Teutonici o dei Portaspada, attirava irresistibilmente chi aspirasse alla dedizione totale al combattimento. Questo senso terribile di devotio, di offerta sacrificale , era accresciuto da una vena di insegnamento esoterico, in parte derivante dalle esperienze delle varie Thule-Gesellschaft dopo la prima guerra mondiale e, in parte, dalle discipline meditative riportate in Europa dalle varie missioni della SS in Tibet".

 sullo stesso argomento, con vari approondimenti:
  http://www.storialibera.it/epoca_contem ... alaya.html
recensione dal certo non maoista "Il Gionale" ad un libro sulla Tibet connection nazista;

http://www.centrostudilaruna.it/SSTibet.html (é un sito di un autore neonazista, che tende ad esaltare la connection come POSITIVA, ma almeno non dce le fesserie del ilm "Sette anni in Tibet"!)

Sullo stesso argomento, si veda anche nei libri seguenti:
 *      Giorgio Galli, Hitler e il Nazismo Magico, le componenti esoteriche del Reich millenario, ed. BUR, 1999.

*        Marco Dolcetta, Nazionalsocialismo Esoterico, studi iniziatici e misticismo iniaziatico nel regime hitleriano, Cooper Castelvecchi, 2003.

*         Peter Levenda, Unholy Alliance, a history of Nazi involvement with the Occult, Continuum Press 2002.

Sulla rivolta anticinese del 1959 non mi dilungo perché credo tuti la conoscano; era una lotta legittima? Per alcuni sì (era contro la sinizzazione e la persecuzione religiosa), per altri no (era per impedire la riforma agraria e la defeudalizazione del Tibet), ma fu certamente RIVOLTA IN ARMI, e quindi per definizione non-nonviolenta e SE  legittima, lo fu come lo  sono tutte le lotte in armi contro un oppressore, siano condotte da Buddhisti, Cattolici come i Baschi  gli Irlandesi, Musulmani come Palestinesi e Kurdi,  Indù come i partigiani antinglesi in India, Ebrei, come i membri delle organizzazioni armate sioniste contro gli Inglesi in Palestina, ecc.

Per evitare inutil polemiche preciso 8per chi non l'avesse capito):
- che non sono così folle da affermare che il lamaismo tibetano abbia responsabilità nel fenomeno nazista;
- che non affermo neppure che tale lamaismo (buddhista) fu sempre fonte di violenza o alleato a forze genocide;
- infine che nessun crimine di un gruppo di potere (lamaista, mongolo, italiano, tedesco, cinese, ecc.) giustifica alcuna persecuzione di vendetta verso l'intero popolo.

Ma, sostenere che il Buddhismo non ha mai dato vita nella Storia a movimenti che hanno praticato la violenza, la guerra civile, il rapporto con regimi genocidi e la collaborazione con invasori sanguinari E' FALSO e padre di stereotipi (magari utili per criminalizare nvece Indù o Musulmani...) generatori potenziali di orrori senza nome e altrettanto falso é descrivere il Tibet come una terra di pace e armonia sconvolta solo dall'arrivo dell'EPL nel 1950.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da cavallo »
"anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti" (Fabrizio De André)

cavallo

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« Risposta #1 il: 30 Luglio, 2007, 19:09:45 pm »
mi sono scordato, per chi non lo sa, di dare qualche elemento sul "Buddhismo tntric", maggioritario in Tibt
Questo sitone dà alcuni cenni: http://spazioinwind.libero.it/popoli_an ... ntrico.htm

per altri cenni: http://www.scuolainteriore.it/buddhismo/buddhismo.htm

per elementi storicizzti: http://www.geduntharchin.it/buddhismo/b ... betano.asp

scusate l'omissione.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da cavallo »
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hanabi

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« Risposta #2 il: 31 Luglio, 2007, 16:17:01 pm »
Cavallo allora tu non hai capito proprio niente di niente.Tu stai affermando che se e stato commesso qualche atto grave(e comunque non paragonabile minimamente all'islam in quanto la violenzaq per quanto tu ne possa dire e fare il finto tonto e chiaramente approvata)da qualche buddhista questo e perche i testi fondamentali del buddhismo contengono passi violenti?Stai dicendo che il buddha era un uomo violento?Che ha detto qualcosa che approvava la violenza?Ma lo sai che sei ridicolo proprio?Vedi cavallo..qua se c e qualcuno che gioca sporco sei tu..ti aggrappi alle tue idee senza provare a capire cosa si sta sta dicendo e di cosa si sta parlando e ti ritiri dalle discussioni in modo vigliacco.Fai come vuoi.E studia bene pure la storia del buddha e dei vari buddhismi va che forse hai grosse lacune.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da hanabi »
yo no naka wa yume ka utsutsu ka utsutsu tomo yume tomo shirazu arite nakereba...

hanabi

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« Risposta #3 il: 31 Luglio, 2007, 16:32:21 pm »
Ah fai una cosa cavallo..leggiti il dammapada e poi prova a spiegarmi la violenza nel buddhismo..e non fare il finto tonto che citi le nefandezze compiute dai cristiani(certamente non seguendo il vangelo..o mi dirai che anche gesu era violento?sai con il tuo relativismo culturale spaventoso non si sa mai..)o da qualche re tibetano.Devi provarmi che il buddha incita alla violenza..perche se qualche testa calda fa qualcosa per conto suo pur professandosi buddhista,la colpa del gesto certamente non ricade sulla filosofia buddhista,al contrario dell'islam..quello vero non quello che hai in testa tu e qualcun altro che ignora completamente cosa sia il vero islam.Spero che comprenda una volta e per tutte questa differenza.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da hanabi »
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hanabi

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« Risposta #4 il: 01 Agosto, 2007, 12:06:09 pm »
eccovi una storia seria del tibet:
Le origini del popolo tibetano rimangono ancora oggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizione mitologica i remoti antenati degli abitanti del Tibet sarebbero stati uno scimmione, considerato un'incarnazione della deità Chenrezig e una sorta di orchessa venerata come nume tutelare della montagna. La loro unione avrebbe dato vita ad una bizzarra prole, strani esseri metà uomini e metà scimmie da cui, attraverso un considerevole numero di generazioni, si evolse gradualmente la razza tibetana. Dimensione mitica a parte, la moderna antropologia colloca i tibetani all'interno di quella vasta famiglia etnica nota con il nome di ceppo mongolide che comprende diversi popoli dell'area centro asiatica. In effetti non è semplice determinare con certezza l'origine degli abitanti del Tibet. Anche partendo da angoli di visuale molto grossolani, ad esempio la banale osservazione fisica dei tratti somatici, vediamo come alcuni ricordino nell'aspetto dei mongoli mentre altri siano più simili ai nativi d'America (i cosiddetti "pellerossa") e altri ancora possano ad uno sguardo superficiale sembrare parenti stretti di giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regioni centrali di U e Tsang, e in larga parte anche quelli del Tibet occidentale, sono di statura media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invece decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli neri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma "a mandorla". Contrariamente all'elemento etnico, quello linguistico non ha alcuna parentela con il mondo mongolico. La lingua tibetana presenta piuttosto punti di contatto con il birmano, tanto che gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e con alcuni dialetti della regione himalayana. Nel tibetano parlato si rintracciano anche alcune periferiche influenze di origine cinese ma le due lingue sono reciprocamente del tutto incomprensibili.

Così come quelle etniche, anche le origini storiche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute. Le antiche tradizioni parlano di un'età mitica in cui governava una dinastia di re celesti, una sorta di dei che esercitavano la loro funzione regale sulla terra. Di giorno questi monarchi divini vivevano nel mondo degli uomini e di notte salivano magicamente in cielo tramite una corda che viene descritta come specie di arcobaleno. Questi re celesti, secondo le cronache tibetane, governavano fino a quando il loro primogenito imparava a cavalcare (in genere verso i tredici anni) ed nella maggiore età. L'ingresso del giovane nell'età adulta segnava il passaggio dei poteri dinastici e il vecchio re moriva, nel senso che tornava definitivamente in cielo per mezzo della corda magica.

Il primo di questi monarchi discesi sulla terra viene considerato Nyatri Tsempo che arrivato nella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), vi insedi? la omonima dinastia. Pare che prima dell'arrivo del sovrano i tibetani non abitassero in edifici in muratura e vivessero per lo più in caverne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiere un passo decisivo all'evoluzione del popolo tibetano edificando il primo palazzo, quello Yumbulagang di cui si è appena parlato. Nyatri Tsempo e i suoi primi sei successori, salendo al cielo al momento della morte, non lasciavano spoglie mortale e quindi non c'era la necessità di costruire monumenti funerari. Fu solo a partire dall'ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magica, in grado di assicurare ai sovrani la soprannaturale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri, dal momento che rimanevano sulla terra, avevano bisogno di una tomba. Il monumento funerario di Drigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora "la prima tomba dei Re", con la sua presenza visibile e concreta prova che questo sovrano esistette realmente e con lui le vicende del Tibet entrano, se non nella Storia almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciano ad emergere dalle poetiche nebbie del mito.

Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevi vi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in questo periodo presenta i tratti di una società feudale, fortemente gerarchicizzata e posta sotto il governo di Songtsen Gampo (noto anche come Tride Songtsen) il trentaduesimo re di Yarlung. Songtsen Gampo riuscì nell'arduo compito di riunire sotto un unico comando quel variegato mondo di tribù dell'Asia centro-settentrionale che costituiscono l'elemento fondamentale dell'etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quindi, gran parte dell'odierno Tibet centrale è unificato e i suoi abitanti sono in grado di compiere audaci quanto fortunate scorribande militari all'interno dello stesso territorio cinese. Popolo di nomadi coraggiosi fino all'aggressività, dediti alla pastorizia e con scarsa propensione alla vita sedentaria, i tibetani dell'epoca con le loro incursioni seminano il panico tra le popolazioni han della Cina. Sotto Songtsen Gampo Lhasa, l'unico agglomerato urbano di un certo rilievo, diventa la capitale del Paese e spedizioni militari condotte verso nord e ovest annettono al Tibet porzioni significative dei territori limitrofi. Nel 635 il sovrano sposa la principessa nepalese Bhrikuti Devi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell'imperatore cinese T'ai Tsung, la giovane Wen-c'eng Kung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune scritture e immagini sacre buddhiste che rappresentarono i primi elementi di Buddhismo ad essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più importante fu senza dubbio la statua di Buddha Sakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa e che si dice fosse stata benedetta dallo stesso Buddha. Ancora oggi questa statua, che si trova a Lhasa all'interno della cattedrale del Jokang, è meta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli. Anche se la religione professata dalle due principesse era quella buddhista non sembra però che il Buddhismo, al di là di alcune pratiche esteriori, fosse seriamente seguito; rimaneva una religione straniera fondamentalmente estranea sia al popolo sia agli stessi ambienti della corte. La vera tradizione spirituale del Tibet continuava ad essere il Bon, una sorta di religione della natura con venature sciamaniche, radicato tra la gente e molto influente tra i ranghi del governo e della nobiltà.

Tra gli innumerevoli meriti che vengono attribuiti a Songtsen Gampo il più significativo è senza dubbio la sua determinazione nel voler dotare la lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura. Sembra che l'esigenza di una grafia derivasse soprattutto dall'interesse per il Buddhismo che provava il sovrano il quale voleva che il suo popolo potesse leggere gli insegnamenti dell'Illuminato. Songtsen Gampo invi? dunque in India un folto gruppo di eruditi allo scopo di trovare una scrittura che potesse adattarsi alla lingua tibetana e far sì che anche il Paese delle Nevi avesse, come quasi tutti gli stati con cui confinava, la possibilità di tradurre in segni i suoni fonetici. Thonmi Sambota, lo studioso a cui il re aveva affidato il comando dell'impresa, tornò in Tibet solo dopo diversi anni portando con sé una sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel tempo nei regni dell'India centro-settentrionale e himalayana. L'adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolinea con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collega il Tibet all'India, legame che andrà sempre più rafforzandosi nei secoli successivi grazie alla vasta (e tutto sommato rapida) diffusione del Buddhismo nel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevare numerosi autori, l'adozione di un tipo di scrittura rappresenta una precisa scelta di campo culturale che comporta profonde implicazioni le quali travalicano gli ambiti di una opzione puramente tecnica verso una particolare forma grafica per svilupparsi verso ben altri orizzonti. Creando una grafia così vicina al sanscrito il mondo tibetano compì, oltre mille anni or sono, un passo che lo allontanò irreversibilmente dall'area cinese cui lo legavano alcune remotissime ascendenze etniche, per entrare a pieno titolo nell'universo della koiné indiana.

Songtsen Gampo morì nel 649 e i suoi successori ampliarono ulteriormente i confini del regno che andava sempre più prefigurandosi come uno dei principali, e temuti, poteri dell'Asia centrale. Nel 755 salì al trono Trisong Deutsen che passerà alla storia come il più importante di tutti i sovrani della dinastia di Yarlung. Trisong Deutsen eredita un impero forte e solido la cui stabilità interna e potenza militare erano state rafforzate dai quattro monarchi che avevano regnato negli oltre cento anni che intercorrono tra la scomparsa di Songtsen Gampo e il 755. Deciso, audace, spregiudicato (almeno per quanto riguarda la politica estera), Trisong Deutsen organizza brevi ma efficaci spedizioni che arrivano a colpire e conquistare il cuore dell'impero cinese e costringono l'imperatore del Regno di Mezzo a firmare un umiliante trattato di pace. Trisong Deutsen però occupa un posto di particolare rilevanza nella storia del Tibet non tanto per le sue brillanti imprese belliche quanto perché a lui si deve l'effettiva introduzione sul Tetto del Mondo della religione buddhista che, nel volgere di una manciata di secoli, diverrà il principale collante spirituale e culturale dell'intera nazione. Sin da giovane Trisong Deutsen si mostrò estremamente incuriosto e interessato da quella dottrina che tanto successo aveva riscosso in India, Cina e in numerosi altri stati asiatici. Nonostante il parere negativo di molti suoi consiglieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i più rinomati maestri buddhisti dell'epoca per diffondere, anche nel Paese delle Nevi, il messaggio del Buddha. Due furono le figure di maggior rilievo che dall'India giunsero in Tibet nell'ottavo secolo, Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raffinato erudito dell'università indiana di Nalanda, introdusse l'ordinamento monastico mentre il secondo, grazie alla forza di un incredibile carisma personale, riuscì a superare le numerose resistenze che gli ambienti Bon opponevano alla diffusione della nuova fede. Sembra comunque che il confronto tra le due religioni sia avvenuto in modo piuttosto pacifico e il "campo di battaglia" fosse rappresentato sia da dibattiti filosofici sia dall'uso di quei "poteri miracolosi" così importanti per la psicologia tibetana. Durante il regno di Trisong Deutsen il Buddhismo mise salde radici in Tibet. I vecchi templi fatti costruire dalle mogli di Songtsen Gampo e lasciati andare in rovina dai suoi successori vennero restaurati. Fu edificato Samye, il primo monastero buddhista e, come si è già detto, Santarakshita ordinò alcuni monaci tibetani. Delle due scuole Buddhiste che si confrontarono in Tibet, quella "indiana" e quella "cinese" si affermò nettamente la prima. Varrà la pena di notare come anche questa scelta, sia pure relativa all'ambito religioso e motivata solo da ragioni spirituali, accentui ancor più i legami della cultura tibetana con l'India che pu? quindi considerarsi la vera ispiratrice della civiltà tibetana avendogli fornito scrittura e religione.

Trisong Deutsen muore nel 797 ma la sua politica viene continuata, anche se con minore efficacia, da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo e Tride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen, terzogenito di Tride Songtsen, che viene generalmente considerato il terzo grande sovrano della dinastia di Yarlung. Egli pose finalmente termine alle interminabili guerre con la Cina e firmò un trattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibet si normalizzarono. Purtroppo per Ralpachen, e anche per il Tibet, la forte simpatia che il sovrano manifestava per il Buddhismo suscitò invidie, gelosie e risentimenti di ogni genere. Un gruppo di oppositori approfittò della situazione per organizzare una sanguinosa congiura di palazzo. Si fece appello ai sentimenti sciovinisti di alcune famiglie aristocratiche che ancora consideravano il Buddhismo un corpo estraneo al Tibet e si esasperarono le paure dei sacerdoti bon-po timorosi che la loro antica religione venisse del tutto soppiantata dalla nuova. Sostenendo che il monarca era manovrato da elementi stranieri i congiurati diedero vita a un cruento complotto che culminò nel 838 con l'assassinio dello stesso Ralpachen a cui successe il fratello maggiore Langdarma. Questi era un acerrimo nemico del Buddhismo che perseguitò con una durezza tale da essere ancora oggi ricordata. I templi e i monasteri vennero chiusi e profanati. I monaci uccisi o costretti all'abiura. Tutte le manifestazioni pubbliche ed esteriori della fede buddhista proibite. Le persecuzioni contro il Buddhismo volute da Langdarma furono così terribili che un monaco di nome Lhalungpa Pelgy Dorje decise di rompere i suoi voti di non-violenza e uccidere il re. La tradizione racconta che il religioso si introdusse, vestito con gli abiti di un sacerdote bon-po, nel palazzo reale durante una festa e riuscì a colpire a morte il sovrano con una freccia scagliata da un arco che aveva nascosto nelle larghe maniche della casacca. La scomparsa del monarca sanguinario segnò ad un tempo la fine della dinastia di Yarlung e dell'unità politica del Tibet. Quello che per quasi quattrocento anni era stato uno dei più forti imperi dell'Asia si frammentò in una miriade di piccoli principati sovente in guerra tra loro e che per molti secoli rimarranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solo nel Tibet occidentale dove si trasferì un ramo della dinastia di Yarlung che diede vita ai regni di Guge e Purang i quali svolsero un ruolo di primo piano nella storia culturale della regione himalayana creando una tradizione artistico-religiosa di altissimo livello. Diversamente da quelle occidentali, le province centrali e orientali del Tibet entrarono in un periodo di confusione politica in cui l'assenza di un potere autorevole farà a lungo sentire i suoi effetti nefasti.

Tratto da ôIl Tibet nel Cuoreö, di P. Verni

Cavallo il tuo tentativo di denigrare il popolo tibetano e penoso.Specialmente sapendo in che condizioni si trova e conoscendo la figura del dalai lama.Vergognati.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da hanabi »
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glaus

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« Risposta #5 il: 04 Agosto, 2007, 19:47:07 pm »
E il resto? Non penso che la storia del Tibet si limiti al 900 d.C. Non è successo nient` altro tra il decimo secolo e il 1950?
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da glaus »

babo

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« Risposta #6 il: 05 Agosto, 2007, 06:53:39 am »
Citazione da: "glaus"
E il resto? Non penso che la storia del Tibet si limiti al 900 d.C. Non è successo nient` altro tra il decimo secolo e il 1950?


la storia del Tibet continua anche dopo il 1950
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da babo »

glaus

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« Risposta #7 il: 05 Agosto, 2007, 10:35:50 am »
Citazione da: "babo"
Citazione da: "glaus"
E il resto? Non penso che la storia del Tibet si limiti al 900 d.C. Non è successo nient` altro tra il decimo secolo e il 1950?

la storia del Tibet continua anche dopo il 1950
Non avevo dubbi in proposito. Ma il senso della domanda era un altro, piu' sottile e non facilmente individuabile....Vorrei per¾ sottolineare come sia estremamente ingenuo [se non stupido] considerare i tibetani come un popolo non violento o il ramo piu'gentile dell'umanitß'. Non é'affatto vero. Questo tipo di stereotipi che si sono cosi' radicati nell'immaginario occidentale sono spesso stati utilizzati in funzione anti-cinese. Specie dopo l'occupazione del Tibet.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da glaus »

babo

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« Risposta #8 il: 05 Agosto, 2007, 16:17:49 pm »
Citazione da: "glaus"
Citazione da: "babo"
Citazione da: "glaus"
E il resto? Non penso che la storia del Tibet si limiti al 900 d.C. Non è successo nient` altro tra il decimo secolo e il 1950?

la storia del Tibet continua anche dopo il 1950
Non avevo dubbi in proposito. Ma il senso della domanda era un altro, piu' sottile e non facilmente individuabile....Vorrei per¾ sottolineare come sia estremamente ingenuo [se non stupido] considerare i tibetani come un popolo non violento o il ramo piu'gentile dell'umanitß'. Non é affatto vero. Questo tipo di stereotipi che si sono cosi' radicati nell'immaginario occidentale sono spesso stati utilizzati in funzione anti-cinese. Specie dopo l'occupazione del Tibet.

Si' certo volevi che hanabi trattasse delle lotte di potere tra Karmapa e Gelugpa e poi all'interno di questi, dove il "buddismo tibetano" rivela tutti i soui orrori! il buddismo tibetano in se non ha nulla di terrificante e non incita ad ammazzare nessuno; il fatto e' che essendo stato una teocrazia, lo stato tibetano aveva al vertice i lama, ma come tutti i goveranti hanno fatto cose normali e pessime (io ai goveranti buoni non ci credo). Non e' nel buddismo che dobbiamo cercare la causa di quello che e' successo in Tibet, ma nella ricerca del potere e di come mantenerlo.
Qno soprattutto in occidente considera i tibetani come popolo di santi in terra-poveri martiri perseguitati ma sono esseri umani come gli altri con vizi e virtu' non dissimili dalle nostre, ma quello che hanno dovuto e ancora subiscono dai comunisti e' reale purtroppo. Certo strumentalizzare il tutto in funzione anti-cinese puo' sembrare sbagliato ma bisogna fare distinzioni: il governo USA(o chi per lui) puo' utilizzare questo argomento per attaccare la RPC, ma lo puo' fare perche' e' un nervo scoperto!!! Non sono balle, invasione, repressione e colonizzazione ci sono state.
Tibet non e' Cina, ma ora e' RPC. Ha fatto parte dell'impero sotto la dinasita Yuan, anche in virtu' della relazione speciale intercorsa tra tibetani e mongoli e poi e' stato un semiprotettorato dei Qing, ma ancora l'impero Qing non e' Cina, era la Cina con qualche pezzo in piu'. I cinesi contemporanei imbevuti di propaganda lo ignorano (o fingono), ma e' la realta', tanto possono fa affidamento sul concetto di Cina, che come tutta la terminologia "cinese" e' vago e indefinito e puo' espandersi a piacimento. Se domani la Corea fosse assorbita dalla RPC, allora anch'essa tra 50 anni sarebbe Cina? In fondo e' sempre stata nell'orbita cinese, ha assorbito la sua cultura, e' anche stata un protettorato...
Tuttavia e' possibile sposare la causa tibetana senza sentirsi un burattino degli USA? o di Richard Gere? la mia risposta e' si', perche' e' un problema vero, che in prima istanza riguarda cinesi e tibetani al di la di ogni possibile strumentalizzazione.
Se non hai dubbi in proposito che la storia tibetana continui dopo il 1950, allora forse anche tu ti sei fatto strumentalizzare? non lo sai che il Tibet e' parte della Cina?  :wink:
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da babo »

hanabi

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« Risposta #9 il: 05 Agosto, 2007, 17:01:14 pm »
Mamma mia meno male che babo ha capito il nocciolo della questione.Cmq glaus si hai ragione il buddhismo tibetano e violento e probabilmente tutto questo si deve far risalire al buddha..la colpa e sua che ordinava di compiere atti violenti.Questi cattivi di tibetani stanno anche rendendo la vita impossibile ai cinesi...ma che barbari..eh si glaus..meno male che ci sei tu ad illuminarmi sulla storia.Cmq tanto per precisare..se vuoi ti posto tutta la storia tibetano..cosi ti renderai conto di tutte le cavolate che dici specialmente sul tibet di oggi....ma nojn farmi ridere dai
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da hanabi »
yo no naka wa yume ka utsutsu ka utsutsu tomo yume tomo shirazu arite nakereba...

glaus

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« Risposta #10 il: 06 Agosto, 2007, 15:30:05 pm »
Citazione da: "hanabi"
..se vuoi ti posto tutta la storia tibetano..cosi ti renderai conto di tutte le cavolate che dici specialmente sul tibet di oggi....ma nojn farmi ridere dai

Volentieri! Postamele! Evita pero' trattazioni poco scientifiche. Grazie!
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da glaus »

aaron

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« Risposta #11 il: 06 Agosto, 2007, 20:53:53 pm »
cavallo, ma pu? scrivere di meno? riasumi quello che devi dire, no?! non ho tutto quel tempo per leggere quelle che scrivi...quindi non riesco neanche a iniziare......
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da aaron »

hanabi

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« Risposta #12 il: 07 Agosto, 2007, 09:43:00 am »
eccovi il continuo della storia tibetana.

La rinascita dello stato Tibetano


Tra la fine del decimo e l'inizio dell'undicesimo secolo un Tibet ormai dimentico dei suoi trascorsi imperiali fu però attraversato da un rinnovato interesse per il Buddhismo. I canali spirituali tra il Tetto del Mondo e l'India tornarono ad aprirsi e un notevole flusso di contatti riprese a scorrere in entrambe i sensi. Maestri indiani vennero a insegnare in Tibet e studiosi tibetani si recarono ad approfondire le loro conoscenze nelle principali università buddhiste dell'India. Nei decenni a cavallo dell'anno Mille si verificò una vera e propria Seconda diffusione della dottrina grazie alla quale il Buddhismo si affermò definitivamente come religione principale e si articolò in numerose scuole (1). Tra il primo e il secondo secolo del nuovo millennio vengono costruiti in Tibet alcuni tra i suoi più importanti monasteri (gompa, in tibetano). Tshurpu, Sakya, Drigung, Talung, Reting e molti altri che in breve acquistano una rilevanza tale da travalicare la sfera esclusivamente religiosa per entrare in quella sociale.

La massiccia diffusione del Buddhismo aveva creato in Tibet una nuova koiné intorno alla quale si ritrovava la grande maggioranza della popolazione. Ma dal punto di vista politico il Paese rimaneva diviso e frammentato. Comunque tra l'undicesimo e il dodicesimo secolo i diversi re, principi e signori feudali che governavano il Tetto del Mondo riuscivano a convivere senza eccessive tensioni e quel periodo viene ricordato come piuttosto pacifico e tranquillo. E' l'inizio del tredicesimo secolo a segnare la fine di questo intermezzo sereno della storia tibetana. A nord, in un'immensa area che abbraccia in pratica quasi l'intera Asia centrale, le tribù mongole sono in movimento. Sotto la guida di capi intelligenti e decisi queste popolazioni fiere, bellicose e aggressive stanno assoggettando nazioni e popoli. Perfino la Cina, l'orgoglioso Impero di Mezzo, cade sotto i loro assalti.

Nel 1207 Gengis Khan, il capo supremo dei mongoli, manda i suoi emissari a intimare la sottomissione dei tibetani che non hanno altra scelta che quella di arrendersi, ben consapevoli che nulla avrebbero potuto contro la micidiale forza d'urto delle armate mongole. Nel 1239 le avanguardie della cavalleria di Godan, nipote di Gengis Khan, penetrano in profondità sul Tetto del Mondo raggiungendo le province centrali di U e Tsang. Il destino del Tibet sembra dunque segnato quando accade un fatto imprevisto e forse imprevedibile. Affascinato dai rapporti dei suoi uomini che raccontavano della grande influenza esercitata in Tibet da yogin e lama, Godan si incuriosì a tal punto che ne volle conoscere di persona qualcuno e invitò alla sua corte il più rinomato maestro spirituale dell'epoca, Sakya Pandita, capo della scuola Sakya-pa.

Il rapporto che si stabilì tra il lama ed il khan mongolo fu intenso e complesso; il primo, grazie ad un eccezionale carisma, riuscì a convertire al Buddhismo il secondo che, come segno di devozione, non solo proibì ogni ulteriore incursione dei suoi eserciti sul Paese delle Nevi ma assegnò anche agli abati della scuola Sakya-pa il governo dell'intero Tibet. Questa relazione, che gli storici anglosassoni sono soliti definire lama-patron, aveva dunque partorito un Tibet governato da tibetani (gli abati Sakya-pa) e posto sotto la diretta protezione del Khan mongolo che con il suo appoggio intendeva rendere evidente, concreto e manifesto il legame spirituale che lo univa al Tibet e alla sua religione. Il rapporto lama-patron iniziato da Godan khan e Sakya Pandita continu? con i loro rispettivi successori. Kublai khan, figlio di Godan, fu così affascinato dalla personalità e dalle realizzazioni spirituali di Phagpa, nipote di Sakya Pandita, da conferirgli il prezioso titolo di Precettore Imperiale che equivaleva a quello di sovrano del Paese delle Nevi.

La gerarchia Sakya governò il Tibet per circa un secolo ma quando in Cina l'influenza della dinastia Yuan (mongola) cominci? a indebolirsi sul Tetto del Mondo il potere dei Sakya-pa prese a vacillare. Nella valle di Yarlung la potente famiglia dei Pamotrupa si mise a capo di un movimento dai forti accenti nazionalisti che apertamente contestava l'autorità degli abati di Sakya il cui potere terminò del tutto nel 1354. Jangchub Gyaltsen, l'uomo forte del clan Pamotrupa, formò un nuovo governo che venne riconosciuto dagli stessi khan mongoli ormai alla vigilia della fine del loro ruolo dirigente in Cina. Quando i Ming sostituirono gli Yuan alla guida dell'Impero di Mezzo, Jangchub Gyaltsen considerò esaurito e non più riproponibile il rapporto lama-patron e venne così a cadere quel particolare legame che univa il Tibet a una nazione straniera e il Paese delle Nevi poteva nuovamente considerarsi indipendente a tutti gli effetti.
Il periodo della dinastia Pamotrupa coincise con la nascita di un diffuso senso di identità nazionale che trov? la sua espressione più visibile in una decisa rivalutazione del ruolo degli antichi monarchi di Yarlung. In modo particolare Songtsen Gampo e Trisong Deutsen vennero fatti oggetto di una venerazione quasi religiosa. Anche se alcuni governanti Pamotrupa erano monaci o lama, la dinastia si caratterizz? come fortemente laica e sotto di essa tutte le differenti scuole buddhiste e il rinato Bon potettero svilupparsi liberamente e in reciproca armonia. In Tibet i massimi esponenti delle principali tradizioni religiose continuavano a godere di una altissima considerazione ma erano venerati come maestri spirituali e non come esponenti politici. Ovviamente, soprattutto a livello locale, gli abati dei principali monasteri continuavano a esercitare una notevole influenza sociale che facevano valere stipulando alleanze con questo o quel governatore ma le redini complessive della nazione in questo periodo erano in mani laiche.

La caduta, nel 1435, della dinastia Pamotrupa chiude un periodo tutto sommato positivo della storia tibetana che però si avvia verso due secoli convulsi durante i quali una drammatica lotta tra fazioni rivali dilani? un Paese delle Nevi lacerato e diviso. Altrettanto laico di quello dei Pamotrupa fu il governo dei principi di Rinpung che, per circa 130 anni, governarono il Tibet fino a quando nel 1565 il potere passò nelle mani dei re di Tsang, la terza delle grandi dinastie che regnarono sul Tetto del Mondo fra il XV e il XVII secolo. Tutte avevano esercitato la loro autorità in maniera assolutamente autonoma senza far mai alcun gesto di sottomissione, nemmeno formale, nei confronti degli imperatori cinesi.


Note: (1) Le principali sono: Nyingma, Kagyu, Sakya e Gelug.


Il V Dalai Lama


A partire dalla fine del 1400 comincia ad aumentare l'influenza dei lama di una delle principali linee di reincarnazione della scuola Gelug e Sonam Gyatso, il terzo di questi reincarnati, stabilì una forte relazione con alcune tribù mongole che, sebbene non governassero più la Cina, rappresentavano ancora nell'Asia centrale una notevole forza politico-militare. Altan Kan, un discendente di Gengis, divenne discepolo di Sonam Gyatso e in segno di devozione insignì il suo maestro del titolo di Dalai Lama che da allora in poi contraddistinse tutte le successive reincarnazioni di questi maestri. Ben presto la figura dei Dalai Lama acquistò in Tibet, particolarmente nelle regioni centrali ed occidentali, un forte rilievo sociale, oltre che religioso. Il V Dalai Lama, Ngawang Lobsang Gyatso, era un uomo dotato di grandi capacità politiche e di un forte carisma personale. Sentiva profondamente il dramma che il suo paese stava vivendo a causa delle lotte interne che vedevano clan, principati e addirittura alcuni grandi monasteri combattersi per il potere. Infatti i primi decenni del 1600 erano stati drammatici per il Tibet, la forza dei re di Tsang si era indebolita ma non ne era emersa un'altra in grado di sostituirli.
 
Fu in un contesto del genere che il V Dalai Lama, essendosi messo alla testa di un ampio fronte di oppositori, riuscì ad imporsi come l'unico effettivo antagonista dei re di Tsang che vennero definitivamente sconfitti, dopo un'aspra lotta dalle alterne fortune, solo nel 1642. La vittoria del Dalai Lama e dei suoi alleati fu possibile anche, e forse soprattutto, grazie all'alleanza che Ngawang Lobsang Gyatso aveva stretto con Gushri Khan, capo della potente tribù mongola Qosot. L'apporto degli eserciti mongoli si rivelò decisivo e dalla seconda metà del XVII secolo il V Dalai Lama poté governare un Tibet pacificato, unito e indipendente. Una nazione che finalmente aveva trovato un punto di riferimento nel quale tutti si potevano riconoscere tanto dal punto di vista spirituale che politico. Infatti da questo momento le incarnazione dei Dalai Lama cessano di essere solo i rappresentanti di uno dei principali lignaggi della scuola Gelug per divenire invece il simbolo stesso del Paese delle Nevi e di tutti i suoi abitanti, senza alcuna differenza di etnia, posizione sociale o tradizione religiosa.

Gli anni del V Dalai Lama passarono alla storia come sinonimo di buon governo e di feconda stabilità nazionale. I problemi però cominciarono non appena il Prezioso Protettore (2) morì nel 1682. Il suo principale collaboratore, Desi Sangye Gyatso, nascose per diversi anni la morte del V Dalai Lama. Disse che la Presenza si era ritirata per un periodo di meditazione e che per qualche tempo non avrebbe preso parte a cerimonie pubbliche. Ovviamente anche in Tibet le bugie hanno le gambe corte e alla fine si dovette dire la verità ad un popolo tutt'altro che felice di essere stato tenuto per anni all'oscuro della scomparsa della più alta autorità della nazione. Desi Sangye Gyatso cercò di scusarsi adducendo una serie di motivi il principale dei quali era relativo alla costruzione del palazzo del Potala nella città di Lhasa. Dal momento che il V Dalai Lama aveva fatto iniziare i lavori di questo grande edificio (che da allora è rimasto la sede ufficiale di tutti i Dalai Lama) e questi lavori non erano completamente terminati Desi Sangye Gyatso sostenne che aveva tenuto nascosta la notizia della morte di Kundun nel timore che a causa di essa non si portasse più a termine l'edificazione del Potala.

Ovviamente si tratta di una scusa che non regge e sui veri motivi dell'operato di Desi gli storici non sono concordi. Alcuni affermano che era spinto dalla preoccupazione, per altro ben motivata, che un vuoto di potere sarebbe sfociato in un altro periodo di scontri fratricidi vanificando così tutto il lavoro compiuto dal V Dalai Lama. Altri studiosi, meno benevoli, sostengono invece che il comportamento di Sangye Gyatso fosse dettato unicamente dalla sua avidità e dalla paura di essere estromesso dai vertici del governo. Comunque, quale sia stata la verità, il disappunto dei tibetani per l'inganno subito venne compensato dal fatto che insieme alla notizia della scomparsa del V Dalai Lama fu dato l'annuncio che era stata scoperta la nuova incarnazione del Prezioso Protettore e che stava giungendo a Lhasa per essere insediata nel Potala ormai terminato.

L'influenza Manciù


Il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica e il suo comportamento inusuale venne purtroppo usato come pretesto per l'intervento di forze e potenze straniere negli affari interni del "Tetto del Mondo". In quegli stessi anni la Cina, il potente Impero di Mezzo, era teatro di profondi cambiamenti politici che avrebbero avuto nefaste ripercussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. I Manciù (Ch’ing in mandarino), una popolazione nord-asiatica di origine extracinese, avevano preso il sopravvento e si erano insediati a Pechino e dalla capitale del Celeste Impero gettavano sguardi interessati verso gli stati confinanti, primo fra tutti il grande ed indifeso "Paese delle Nevi".

Il secondo imperatore Ch'ing, non volendo esporsi di persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entrare in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu deposto con l'accusa di non essere in grado di mettere in riga il giovane e scapestrato Gyalwa Rinpoche e per di più di essere anche succube degli uomini di fiducia del precedente Dalai Lama. In modo particolare si accanirono contro Desi Sangye Gyatso che venne ucciso mentre tutti i ministri furono messi in prigione e lo stesso VI Dalai Lama posto agli arresti domiciliari.
Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all'imperatore manciù che ricambi? il favore nominando il mongolo governatore del "Tetto del Mondo". Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fu inviato in Cina dove però non giunse mai. Morì infatti durante il viaggio in circostanze misteriose e mai del tutto chiarite anche se i tibetani ritennero che il loro Oceano di Saggezza fosse perito per mano di un sicario di Lhazang Khan. La tragica scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio del capo mongolo feriscono profondamente il popolo tibetano; violenze e atrocità di ogni genere vengono consumate in ogni angolo del "Paese delle Nevi" e, cosa ancora peggiore, la spregiudicata invasione di Lhazang Khan suscita gli appetiti di un'altra tribù mongola, quella degli Zungari, che in precedenza avevano stabilito relazioni ed alleanze con Desi Sangye Gyatso. Approfittando del risentimento che i tibetani provavano verso Lhazang Khan, il quale tra l'altro aveva tentato di imporre un suo protetto come il "vero" VI Dalai Lama, gli Zungari invasero a loro volta il Tibet e nel 1717 conquistarono Lhasa e uccisero Lhazang Khan. Quanti avevano salutato con piacere la caduta dell'inviso despota straniero dovettero immediatamente ricredersi. Infatti i nuovi arrivati si dimostrarono ben presto un rimedio peggiore del male. Inebriati dalla vittoria si abbandonarono ad eccessi di ogni genere. Bruciarono monasteri, violentarono donne, uccisero gli uomini. Il martoriato Paese delle Nevi guardava attonito, disperato e impotente dissolversi tutto quello che l'abilità del V Dalai Lama aveva costruito. Inerme, non poteva che piegarsi alla spietata logica della violenza.

Di tutto questo caos ne approfittò Kang Hsi, l'imperatore manciù, che invi? in Tibet un esercito potente e ben addestrato a combattere gli Zungari e scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VII Dalai Lama, che era stato riconosciuto e viveva nel monastero di Kumbun, nella regione nord-orientale dell'Amdo. Sia perché il suo intervento poneva fine al sanguinario potere degli Zungari, sia perché rendeva possibile il ritorno del Dalai Lama, l'arrivo dell'esercito cinese fu salutato con gioia sul Tetto del Mondo. Ancora una volta però, i tibetani dovettero accorgersi che in politica nessun aiuto è disinteressato. Infatti nel 1720 la settima incarnazione della Presenza si insedi? sul Trono del Leone, ma in cambio l'imperatore pretese che il Tibet divenisse una sorta di protettorato mancese. Due suoi rappresentanti, gli Amban, si stabilirono a Lhasa e una guarnigione han forte di duemila uomini rimase nella capitale tibetana. Compito degli Amban era quello di curare gli interessi di Pechino in Tibet.

Molti degli equivoci che concernono l'effettivo status del Paese delle Nevi nascono in quegli anni. La domanda è la seguente: si pu? considerare il Tibet, a partire dal 1720 parte integrante dell'Impero di Mezzo? La risposta dovrebbe essere negativa. E vediamo perché. E' fuor di dubbio che i tibetani furono costretti ad accettare la soluzione "imperiale" come il minore dei mali e formalmente non contestarono subito la pretesa di Kang Hsi di annettere il Tibet. Nel concreto però continuarono a comportarsi come se nulla fosse avvenuto confidando nel fatto che un effettivo e prolungato controllo della loro nazione sarebbe stato impossibile per i manciù. E infatti così andarono le cose. Una volta rientrato in Cina il grosso dell'esercito imperiale, il Tibet tornò ad essere governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre in pratica gli Amban si limitavano a svolgere le funzioni di normali ambasciatori.
Il VII e l'VIII Dalai Lama non esercitarono un grande ruolo politico ma preferirono dedicarsi alla vita spirituale e la conduzione degli affari dello stato venne affidata ad un Gabinetto (Kashag), costituito da quattro ministri (Kalon) di cui tre erano laici ed uno monaco. Questo assetto legislativo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, fino al 1959.

Il "Grande Gioco" e il XIII Dalai Lama


Gli ultimi anni del diciottesimo secolo segnano l'inizio di un lungo periodo di instabilità per il Tibet che nel 1792 poté respingere un attacco delle armate del vicino regno del Nepal solo grazie all'intervento degli eserciti Ch’ing. Nel 1804 muore l'VIII Dalai Lama e l'Impero di Mezzo riprende in grande stile i suoi tentativi di annettersi il Paese delle Nevi. Nonostante il XI, il X, l'XI e il XII Dalai Lama muoiano tutti in giovane o giovanissima età, il Tibet riesce a trovare la forza di resistere alla pressione manciù e alle ricorrenti aggressioni nepalesi. Pur tra mille difficoltà interne il governo di Lhasa mantiene il controllo della nazione e tenta di barcamenarsi come pu? in una situazione geopolitica che si va facendo sempre più complessa. Sono infatti entrati nel "Grande Gioco" asiatico due aggressivi imperi occidentali, la Russia zarista e la Gran Bretagna, ognuno dei quali teme che l’altro possa inglobare il Tibet nella propria sfera d'influenza.

Nell'anno del Topo di Fuoco (1876) nacque Thubten Gyatso, il XIII Dalai Lama. Questi, contrariamente ai suoi ultimi predecessori, non solo vivrà a lungo ma riuscirà anche a governare il Paese delle Nevi con tale intelligenza e lungimiranza da essere ricordato con l’appellativo di "Grande Tredicesimo". Nel periodo in cui il piccolo Thubten Gyatso veniva educato a Lhasa e trascorreva l’adolescenza dividendosi tra i giochi e gli studi, la Gran Bretagna, al culmine della sua espansione coloniale, cominciava ad interessarsi seriamente del Tibet. Preoccupato che il Tetto del Mondo potesse cadere sotto l’influenza russa dal momento che la forza dell’impero manciù declinava giorno dopo giorno, il Leone britannico voleva estendere la sua influenza sul grande vicino settentrionale dell’India inglese. Certo non si trattava di ambizioni militari, il sub-continente indiano era già abbastanza esteso, ma di mire economiche. Londra era intenzionata a concludere trattati commerciali con Lhasa, con le buone se possibile ma anche con le cattive ove necessario.

L’ottavo giorno dell’ottavo mese dell’anno della Pecora di Legno (1895), il XIII Dalai Lama assunse i pieni poteri e inizi? a guidare il Tibet nei non facili meandri del ôGrande Giocoö. Nel 1904 la Gran Bretagna, dopo aver tentato inutilmente per oltre un anno di stabilire relazioni commerciali con il governo tibetano, armò una spedizione militare che al comando del colonnello Younghusband entrò in Tibet e giunse in breve tempo a Lhasa dopo aver sconfitto l’esercito tibetano. Younghusband stabilì alcuni accordi economici e dopo pochi mesi tornò in India con i suoi soldati. All’arrivo delle truppe britanniche il XIII Dalai Lama era partito per un lungo viaggio che lo aveva portato in Mongolia e poi a Pechino dove nel 1908, tra gli altri, incontrò sia il giovane imperatore Kuang-hsu sia l’Imperatrice vedova Tz’u-hsi poco prima che entrambi morissero nel novembre di quell’anno. Nel 1909 il Prezioso Protettore tornò a Lhasa dopo circa sei anni di assenza ma ben presto dovette partire nuovamente, questa volta per riparare in India, poiché il generale cinese Chung-yin era entrato in Tibet e muoveva minaccioso alla conquista di Lhasa. La capitale tibetana venne conquistata facilmente e sottoposta a una dura repressione. Per la prima volta nella sua storia il Paese delle Nevi era militarmente conquistato da una potenza straniera e gli Amban potevano direttamente governare a Lhasa.

L’occupazione fu però di breve durata. Nel 1911, travolto dalla rivoluzione di Sun Yat-sen, cade l’impero manciù e la Cina diventa una Repubblica. Sbandati e senza più alcuna effettiva guida militare, i soldati cinesi sono sopraffatti dalla popolazione di Lhasa e si arrendono dopo alcuni giorni di combattimenti. Il Tibet, dove non vi è più traccia di militari stranieri e da cui gli Amban sono stati definitivamente espulsi, torna ad essere governato dal Dalai Lama che rientra trionfalmente a Lhasa il sesto giorno del dodicesimo mese dell’anno del Topo d’Acqua (gennaio 1913). Il Prezioso Protettore, consapevole di quanto fosse difficile mantenere l’indipendenza raggiunta, inizi? un processo di apertura e modernizzazione del Paese pur nel rispetto delle tradizioni e delle sue radici culturali. Purtroppo una classe dirigente, sia laica sia religiosa, molto meno lungimirante della Presenza, non assecondò quei programmi con il necessario entusiasmo quando addirittura in segreto non li boicottò. Dunque la spinta riformatrice del XIII Dalai Lama non poté esprimersi in tutta la sua forza e quando, il tredicesimo giorno del decimo mese dell’anno dell’Uccello d’Acqua (17 dicembre 1933), Thubten Gyatso lasci? il suo corpo terreno a causa di un improvviso attacco di polmonite, le idee di modernizzazione e cambiamento morirono con lui.


Il XIV Dalai Lama e l'invasione cinese


La classe dirigente tibetana, pensando che la particolare posizione geografica del Paese delle Nevi sarebbe bastata a difenderlo dai drammatici eventi che stavano radicalmente mutando il volto dell'Asia, tornò a chiudersi in uno ôsplendidoö isolamento che costerà però caro, pochi anni più tardi, all’intera nazione. Il 6 luglio 1935, nell’anno del Maiale di Legno secondo il calendario tibetano, nasce a Takster, uno sperduto villaggio della regione orientale dell’Amdo, la 14? incarnazione del Prezioso Protettore. Riconosciuto secondo le tradizionali procedure da una delegazione inviata dal governo tibetano, il piccolo bambino viene quindi portato a Lhasa dove il 14? giorno del primo mese dell’anno del Drago di Ferro (22 febbraio 1940) viene formalmente insediato.

All’inizio degli anni ’40 il Tibet è un’oasi di pace al centro di un continente sconvolto da guerre e rivoluzioni. La Cina, dove per anni si erano sanguinosamente combattuti comunisti e nazionalisti, cerca ora di resistere come pu? all’invasione giapponese che appare sempre più irresistibile. Nell’India britannica il movimento indipendentista guidato da Gandhi guadagna terreno minando le basi della dominazione inglese e, a partire dal 1941, il Giappone entra nella seconda guerra mondiale a fianco di Germania ed Italia attaccando la base aerea navale statunitense di Pearl Harbour. Sfortunatamente in Tibet solo pochi, e anch'essi troppo tardi, si accorsero che minacciose nuvole portatrici di una tempesta senza pari si stavano addensando sul cielo del Tetto del Mondo dove, per la quasi totalità della popolazione, le giornate e gli anni continuavano a scorrere con i ritmi arcaici di sempre.

Nel 1945 il Giappone sconfitto e umiliato dall’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, si arrende alle potenze alleate. Pochi anni dopo (1947) l’Inghilterra è costretta ad abbandonare la sua amata colonia indiana che si divide, in un bagno di sangue, in due stati rivali: il Pakistan musulmano e l’Unione Indiana a grande maggioranza induista. In Cina nel 1949 termina una delle più sanguinose guerre civili che la storia ricordi e il Partito Comunista prende il potere guidato dal suo carismatico leader Mao Tsetung. E sarà proprio quest’ultimo evento ad avere enormi e tragiche conseguenze sulla storia tibetana. E’ lo stesso Mao, mentre celebra a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese, ad affermare con forza che il Tibet dovrà essere riconquistato alla Madrepatria Cinese e strappato alle ôforze imperialisteö. A Lhasa le affermazioni del leader comunista non giungono inaspettate. Il governo tibetano aveva già avuto sentore dei propositi della nuova classe dirigente cinese e aveva, invano, cercato di ottenere la solidarietà internazionale. Ma quell’isolamento che nei lontani e felici anni ’30 era sembrato così ôsplendidoö oggi si ritorce come un boomerang contro il Paese delle Nevi. La Gran Bretagna risponde agli inviati di Lhasa che ormai è fuori dalle vicende politiche asiatiche, gli USA dicono che vedranno cosa si pu? fare ma poi non faranno nulla, il governo indiano, e soprattutto il suo Primo Ministro Nehru, tutto hanno in mente tranne che guastare i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e la neonata ONU (diretta discendente di quella Società delle Nazioni a cui il Tibet si era ben guardato dall’aderire) preferisce guardare da un’altra parte.

In questo desolante quadro politico il 7 ottobre 1950 le truppe del potente vicino cinese attaccano la frontiera tibetana in sei luoghi diversi e travolgono facilmente la debole resistenza del suo piccolo esercito. A Lhasa il governo e l’intera popolazione vengono presi dal panico. In novembre, sotto l'incalzare degli eventi, sono conferiti i pieni poteri al Dalai Lama nonostante abbia solo 16 anni. Mai nella storia il Tibet era stato governato da un Dalai Lama così giovane. Dopo essere penetrato in territorio tibetano, l'esercito cinese non avanz? oltre le regioni nord orientali forse temendo una reazione internazionale. Nell'aprile 1951 il governo del Dalai Lama invi? in Cina una delegazione che era autorizzata ad esporre il punto di vista di Lhasa e ad ascoltare le posizioni cinesi ma non poteva firmare alcun accordo. A Pechino però, i tibetani furono sottoposti a minacce di vario genere e venne loro impedito ogni contatto con le autorità di Lhasa. In queste condizioni la delegazione tibetana fu costretta a firmare un trattato in Diciassette Punti secondo il quale il Tibet entrava a far parte della Cina sia pure in condizioni di notevole autonomia. L'esercito comunista poté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951 portando così a termine l'occupazione del Tibet.

 Nel suo arduo tentativo di trovare una qualche forma di pacifica convivenza con l'occupante, nel 1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia nella Repubblica Popolare Cinese. A Pechino il leader tibetano ebbe diversi incontri con Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importanti dirigenti comunisti. Prima di partire per tornare a Lhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si disse d’accordo, quanto fosse importante che i cinesi rispettassero le tradizioni sociali e culturali del Tibet come del resto stabiliva lo stesso trattato in Diciassette Punti. Nonostante le assicurazioni ricevute a Pechino, il Dalai Lama trov? in Tibet una situazione estremamente deteriorata. Alle innumerevoli angherie e violenze compiute dai cinesi ai danni della popolazione e dei monasteri, i tibetani avevano risposto dando vita a un vasto movimento di resistenza attivo in pratica in tutta la parte nord-orientale del Paese. Gushi Gangdruk, letteralmente ôQuattro fiumi e sei catene di montagneö, era il nome dell’organizzazione guerrigliera tibetana, nome che si richiamava a quello con cui le regioni dell’Amdo e del Kham erano chiamate dalla gente comune. Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa centomila guerriglieri combattevano per la libertà del Tibet, ma la disparità delle forze in campo non lasciava alcuna possibilità di successo alla pur eroica resistenza tibetana. Infatti i cinesi potevano contare su di un esercito armato di tutto punto, organizzato secondo una ferrea disciplina, perfettamente addestrato e che contava quattordici divisioni per un totale di oltre centocinquantamila uomini. Durante tutto il 1957 e il 1958 alle incursione della guerriglia Pechino rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, bombardando villaggi, uccidendo monaci, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver aiutato i partigiani. La potente macchina bellica maoista fu responsabile in quegli anni, come appurarono in seguito due dettagliati rapporti della Commissione Internazionale dei Giuristi (3), di un vero e proprio genocidio. Ad ogni azione dei guerriglieri seguivano sanguinose rappresaglie che dovevano servire a terrorizzare la popolazione e fare terra bruciata intorno agli uomini della resistenza. Dall’Amdo e dal Kham, sconvolti dalle battaglie, cominciarono ad affluire nelle province centrali di U-Tsang lunghe colonne di profughi. Dapprima si trattava solo di civili che cercavano di sfuggire alle violenze cinesi. Poi, man mano che si delineava l’inevitabile sconfitta militare, arrivarono anche nutriti gruppi di guerriglieri che speravano di potersi riorganizzare nel Tibet centrale per poi tornare nel nord-est. Ma si trattò di una speranza vana perché ormai la presenza cinese sul Tetto del Mondo era ben solida e capillare. Il potere dello stesso Dalai Lama in pratica non esisteva più e il campo d’azione del suo governo si limitava ai problemi di ordinaria amministrazione mentre per tutte le questioni importanti erano i generali dell’Armata Rossa a decidere e comandare.

Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa la tensione divenne intollerabile. I tibetani non solo erano costretti a subire ogni genere di violenze e soprusi ma dovevano anche assistere impotenti alle quotidiane umiliazioni inflitte al loro leader più amato, il Prezioso Protettore. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la Festa della Grande Preghiera forse la principale ricorrenza religiosa dell’intero anno, il Dalai Lama venne invitato a partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. In realtà più che di un invito si trattò di una vera e propria convocazione dal momento che fu chiesto a Kundun di venire senza l’usuale scorta e accompagnato solo da un pugno di funzionari, peraltro disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi accettò di recarsi negli insediamenti militari cinesi alle condizioni che questi avevano posto. Ma quando i tibetani appresero la notizia decisero che non avrebbero permesso che il loro leader si consegnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Il popolo era convinto che lo spettacolo non fosse altro che un pretesto per rapire la Presenza. Testimoni oculari dissero di aver visto tre aerei pronti a decollare sulla pista del piccolo aeroporto di Damshung a un centinaio di chilometri da Lhasa. Altri raccontavano di aver sentito Radio Pechino affermare che il Dalai Lama era atteso nella capitale per partecipare alla ormai prossima riunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Tutti si dicevano decisi a difendere Kundun anche a costo delle loro vite. Il clima era ormai pre-insurrezionale. La miscela rappresentata dai profughi delle regioni nord-orientali, dai membri della resistenza, dai pellegrini convenuti a Lhasa per le celebrazioni del Monlam e dalla gente normale esasperata da anni di occupazione, si rivelò esplosiva. Ognuno aveva la sua tragica storia da raccontare e i suoi rimedi da proporre. Ci si eccitava gli uni con gli altri e il numero dava l’errata sensazione di poter essere abbastanza forti da sconfiggere l’occupante. Il risultato di questo stato di cose fu un imponente assembramento di popolo che si riunì intorno al Norbulinka (4) dove si trovava il Dalai Lama. La gente chiedeva apertamente al governo di ripudiare il Trattato in Diciassette Punti e che i cinesi se ne andassero dal Tibet. Quello che la folla voleva ormai andava ben oltre la partecipazione del Prezioso Protettore allo spettacolo cinese. La parola d’ordine era, ôLibertà e indipendenza ö.

 Ovviamente i cinesi erano furiosi per quello che succedeva in città e pretendevano non solo che il Dalai Lama si recasse al loro quartier generale ma che il suo governo disperdesse con la forza gli ôassembramenti non autorizzatiö. Tenzin Gyatso era quindi in una difficilissima posizione. Da un lato sapeva bene che i timori della sua gente erano più che fondati ed era commosso dalla lealtà e dall’affetto dei suoi sudditi, dall’altro si rendeva perfettamente conto che nulla avrebbero potuto contro il micidiale apparato bellico dei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque, far scendere la tensione sotto il livello di guardia e poi riprendere la strada del dialogo e delle trattative. La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui vi erano i suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal Palazzo d'Estate per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Purtroppo le speranze del Dalai Lama che una sua partenza avrebbe potuto sistemare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il 19 e il 20 marzo cominci? la battaglia di Lhasa. I cinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmente sperando che la Presenza potesse morire sotto le bombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gente combatteva per le strade una lotta eroica ma impari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontavano un esercito moderno ed equipaggiato di tutto punto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni. I soldati di Pechino furono implacabili e decine di migliaia di persone, in gran parte civili, morirono sotto i colpi di una repressione feroce. Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite. Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo. Scortato da un pugno di uomini della resistenza raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano, dove in un primo tempo pensava di fermarsi in attesa di tornare a Lhasa. Ma di fronte al precipitare della situazione e alle notizie terribili che giungevano dalla capitale decise che non aveva altra scelta se non riparare in India dove giunse il 31 marzo dopo un viaggio che in tutto era durato due settimane e durante il quale aveva percorso oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi concesse immediatamente asilo politico al Dalai Lama che dall’India chiese aiuto alla comunità internazionale per il suo martoriato Paese sul quale erano calate le tenebre di una lunga notte di orrori e tragedie che non è ancora terminata.

Note:
(3) The Question of Tibet and the Rule of the Law, Ginevra 1959
(4) Il Palazzo d'Estate del Dalai Lama, si trova a circa 5 chilometri dal centro di Lhasa


Il Tibet occupato


Mentre Kundun trovava rifugio in India, la Cina portava a termine la repressione della resistenza tibetana e il volto del ônuovoö Tibet cominciava a prendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato da una ingente scorta militare cinese, il Panchen Lama (5) fu fatto arrivare a Lhasa per esservi insediato come presidente del Comitato Autonomo della Regione Autonoma del Tibet, una organizzazione creata dai cinesi per dare l’impressione che i tibetani contassero ancora qualcosa nel loro Paese mentre in realtà ogni potere si trovava ormai nelle mani dei generali di Pechino. In pratica il Tibet venne smembrato e le sole regioni centrali di U-Tsang formarono la Regione Autonoma Tibetana (creata ufficialmente nel 1965) dal momento che il Kham e l’Amdo divennero parte delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Così smembrato e ridotto ad un’area abitata da non più di due milioni di persone il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspettative dei suoi nuovi padroni, pronto per la normalizzazione e l’edificazione di una società socialista. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questo non facile parto fu individuato dalle autorità cinesi nelle cosiddette ôTre educazioniö (alla coscienza di classe, al cambiamento socialista ed alla scienza e alla tecnica) e nelle ôQuattro Pulizieö (del pensiero, della storia, della politica e della economia) che consistevano in una martellante campagna politica e poliziesca destinata a ôripulireö il Tetto del Mondo dai ôreazionari, dalle armi illegali e dai nemici del popoloö. L’intera società tibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidi schemi dell’ortodossia maoista. Da un giorno all’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere ôfeudatariö, ôagenti dei feudatariö, ôricchiö, ôclasse mediaö, ôpoveriö e ôreazionariö. Le classi ômediaö e ôpoveraö vennero considerate quelle da privilegiare mentre le altre subirono un vero e proprio martirio. Ben presto però i cinesi si accorsero che anche la grande maggioranza degli appartenenti alle classi ômediaö e ôpoveraö non ne volevano sapere del governo di Pechino e quindi molti tibetani ômediö e ôpoveriö traslocarono nella più scomoda di tutte le classi, quella dei ôreazionari ö.

Ben presto i generali cinesi si resero conto che oltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai Lama e decisero quindi che per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le ôRiforme Democraticheö erano necessarie delle ôsessioni di lotta ö collettive, i famigerati thamzing, dei veri e propri linciaggi pubblici degli elementi ôcontrorivoluzionari ö a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva con il necessario entusiasmo, rischiava di passare immediatamente dal ruolo di accusatore in quello di accusato. Oltre a queste ôsessioni di lotta ö, per convincere il popolo tibetano a rispettare l’autorità di Pechino e a rompere con la ôvecchia ö cultura, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa, anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. A questo scenario, di per sé tragico, si aggiunse lo spettro della fame e della carestia che tra il 1958 e il 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinese come conseguenza del "Grande Balzo in Avanti" voluto da Mao per riconquistare il pieno controllo del Partito Comunista. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, che era rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui criticava severamente l’operato cinese in Tibet e chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La risposta di Pechino non si fece attendere. Il Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama che dopo il processo sparì nelle carceri cinesi da cui poté riemergere solo nel 1978. A completare l’opera di annientamento della cultura tibetana arriv? nel 1967 la Rivoluzione Culturale con il suo tragico corollario di violenze, distruzioni e deliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati sciamarono sul Tetto del Mondo attaccando e fracassando ogni simbolo della ôvecchia ö cultura del Tibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclasta allucinato e allucinante le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di centinaia e a volte migliaia di anni producendo una ferita irreparabile alla civiltà tibetana. Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si limitò alle cose ma prese di mira anche le persone e i tibetani passarono attraverso un inferno difficile a descrivere con le parole.

Nella seconda metà degli anni '70, con la scomparsa di Mao e l'ascesa al potere di Deng Tsiao Ping, molte cose cambiarono nella Cina Popolare e il nuovo corso denghista comportò anche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet. Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comuni venne definitivamente smantellato. Alcuni monasteri furono parzialmente riaperti e qualche monaco poté essere nuovamente ordinato dai quei pochi che erano sopravvissuti ed alcune celebrazioni religiose ripresero ad essere tollerate. Nel 1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale del Partito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essendo rimasto sconvolto da quello che aveva visto promise ai tibetani un rapido cambiamento della situazione. Contatti informali si stabilirono con il Dalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviare in Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rappresentanti di Dharamsala trovarono fu un Paese umiliato, sconvolto, ferito. Ma se quasi ogni traccia visibile dell'antica civiltà tibetana era stata spazzata via dalla furia iconoclasta di oltre un decennio di Rivoluzione Culturale, il ricordo del vecchio Tibet indipendente era ancora ben vivo nei cuori del popolo tibetano che accolse i delegati del Dalai Lama con un entusiasmo che non piacque alle autorità cinesi le quali nel 1982 dichiararono chiusa la breve stagione delle delegazioni.

Note: (5) Il Panchen Lama è considerato la seconda autorità spirituale del Tibet; prima dell'invasione cinese risiedeva nel suo monastero di Tashilumpo, vicino alla città di Shigatse.


Tibet anni '80/'90


L'inizio degli anni '80 segna anche l'apertura del Tibet al turismo internazionale. Dapprima solo a pochi viaggiatori selezionati e rigidamente inquadrati in seguito anche a gruppi più numerosi e meno controllabili di turisti, viene data la possibilità di visitare il Tetto del Mondo che sembra essere alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turismo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranieri che il più delle volte simpatizzavano apertamente per la causa e le ragioni del popolo tibetano. Per la prima volta i tibetani, specialmente quelli di Lhasa e delle regioni centrali, poterono incontrare direttamente delle persone che parlavano con simpatia della loro cultura, sia religiosa sia laica del Tibet, e che in alcuni casi si dichiaravano anche discepoli di maestri spirituali tibetani e dello stesso Dalai Lama. Questi incontri prepararono il terreno per una rinascita della resistenza che riprese la lotta per la libertà del Tetto del Mondo. Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso statunitense, il Dalai Lama espose un Piano di Pace in Cinque Punti che costituiva una seria e articolata proposta per intavolare delle trattative su basi realistiche con il governo di Pechino per risolvere il problema del Tibet. Purtroppo la dirigenza cinese rispose negativamente al Piano del Dalai Lama e a Lhasa esplose la collera della gente. Il 29 settembre e il 1? ottobre migliaia e migliaia di persone diedero vita a manifestazioni di protesta che la polizia represse con inaudita violenza. Secondo fonti non ufficiali 32 tibetani vennero uccisi e oltre duecento feriti.

Queste dimostrazioni segnano l’inizio di una nuova stagione della resistenza delle donne e degli uomini del Paese delle Nevi e da allora grandi e piccole manifestazioni avvengo quasi quotidianamente a Lhasa e in molte altre località del Tibet. Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni per il capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano a scandire slogan contro l’occupazione cinese e l’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Ore di scontri davanti al tempio del Jokhang si concludono con un tragico bilancio. Ventiquattro laici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi di manganello, davanti e dentro al Jokhang. In seguito parti di un video girato dalla stessa polizia cinese, contenente alcune terribili immagini di questo massacro, vennero trafugate da membri della resistenza tibetana e riuscirono a raggiungere il mondo esterno dove causarono una enorme impressione. Era il primo inoppugnabile documento visivo di quale sorte attende in Tibet chi osa dissentire. Mentre in Tibet si continua a inscenare brevi manifestazioni che cercano di sciogliersi prima dell’arrivo della polizia, il 15 giugno 1988 il Dalai Lama presenta nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo una ulteriore elaborazione del suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto a rinunciare all’indipendenza in cambio di una effettiva autonomia di tutte e tre le province tibetane. Però nemmeno l’essersi spinto così avanti nelle sue concessioni servì al Dalai Lama per convincere Pechino ad aprire un reale negoziato. I dirigenti cinesi continuarono a porre inaccettabili condizioni al Dalai Lama o, peggio, a liquidare le sue dichiarazioni con poche e sprezzanti battute mentre significativi settori del popolo tibetano si dichiararono del tutto contrari ad una apertura che comportava la definitiva rinuncia all’indipendenza. Intanto in Tibet la tensione continuava ad essere altissima. Il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, alcune centinaia di persone manifestarono nuovamente a Lhasa davanti al Jokhang chiedendo libertà civili e autodeterminazione. La polizia cinese reagì, ancora una volta, con brutalità sparando con armi automatiche sulla folla inerme causando diciotto morti e centinaia di feriti tra i quali anche una giovane olandese, Christa Meindersma che si trovava in Tibet in qualità di collaboratrice della Croce Rossa svizzera.

In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989 muore, in circostanze misteriose, il 10? Panchen Lama che si trovava nel suo monastero di Tashilumpo per celebrare alcuni riti. Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita ad un infarto ma il fatto che solo pochi giorni prima della sua scomparsa il Panchen Lama avesse rilasciato ad un giornale cinese una intervista in cui accusava apertamente Pechino di essere responsabile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibetani che il Panchen Lama fosse stato avvelenato dai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. I sospetti sulle vere cause del decesso della seconda autorità spirituale del Tibet gettano altra benzina sul fuoco della tragedia tibetana. Il 5 marzo oltre diecimila persone scendono in piazza a Lhasa dando vita alla più imponente manifestazione dai tempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni si scontrano a più riprese con l’apparato repressivo di Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasa per quasi un’intera giornata. La risposta cinese a queste dimostrazioni è durissima. Secondo fonti non ufficiali diverse centinaia di tibetani perirono negli incidenti e nella repressione che seguì. Tre uomini di affari occidentali che si trovavano nella capitale del Tibet in quei giorni parlarono di oltre cinquecento morti. Il 7 marzo viene imposta a Lhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30 aprile del 1990.
 
Questa nuova ondata di manifestazioni fa crescere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio di piazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibetano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferimento al Dalai Lama del Premio Nobel per la Pace 1989, è il segno più evidente di questo interesse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensifica i suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi di Stato, di governo e parlamentari. Mentre in Tibet, dove la repressione è tale da non consentire manifestazioni di massa, continua però lo stillicidio di piccole dimostrazioni a Pechino nessuno vuole dare risposte positive alle richieste del Dalai Lama. Piano di Pace in Cinque Punti e Proposta di Strasburgo continuano ad essere liquidati come ôtentativi mascherati di dividere il Tibet dalla Grande Madrepatria Cinese ö e rimangono quindi senza risposta. Ma se il Dalai Lama non ottiene nulla da Pechino il suo messaggio viene invece recepito da molti uomini politici internazionali, in modo particolare dal Parlamento Europeo che dopo aver approvato numerose risoluzioni di condanna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il 13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranza un documento in cui si considerata il Tibet uno stato sotto occupazione illegale. E lo stesso Parlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo, accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai Lama il 23 e il 24 ottobre 1996.

Nel mondo intanto la questione del Tibet comincia ad essere sostenuta da un numero sempre crescente di persone. Negli USA tre grandi Tibetan Freedom Concert a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani rendono popolare la lotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colleges e nelle università. In Europa il 10 marzo del 1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifestazione internazionale per la libertà del Tibet che sarà replicata con altrettanto successo a Ginevra nel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle sale di tutto il mondo escono diversi film sul Tibet e sul Dalai Lama. Tra l'altro nel dicembre 1997 la Commissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.) di Ginevra aveva pubblicato un secondo documento sul Tibet (6) che mette a nudo la gravità della situazione e chiede alle Nazioni Unite di intervenire. In particolare la C.I.G. chiede all’ONU di far discutere all’interno dell’Assemblea Generale il caso tibetano, di nominare un Inviato Speciale per indagare sulle effettive condizioni di vita dei tibetani, e di attivarsi per far svolgere in Tibet un referendum con il compito di accertare quali siano i veri sentimenti del popolo tibetano riguardo alla situazione del loro Paese. E poiché il popolo tibetano in Tibet non pu? parlare se non a rischio della vita o della prigione, gli esuli in India decidono di dar loro la voce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militanti della Tibetan Youth Congress (cinque uomini e una donna) iniziano uno sciopero della fame ad oltranza per sostenere le richieste della Commissione Internazionale dei Giuristi. Al 49? giorno di digiuno la polizia indiana interviene ospedalizzando con la forza i sei e impedendo loro di continuare fino all’estremo sacrificio la protesta. Sconvolto per questa ennesima prevaricazione contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibetano di 50 anni che aveva accudito i digiunatori fin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per protesta e muore dopo pochi giorni con oltre il 95% del corpo gravemente ustionato. La foto di Tupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa in poche ore il giro del mondo. E' auspicabile che quelle fiamme possano rischiarare la notte del popolo tibetano e contribuire a mettervi fine.

Note: (6) Tibet: Human Rights and the Rule of Law, Ginevra 1997


Tibet oggi


Il sistema politico e l'attuale dirigenza

Il Tibet, come tutta la Cina continentale, è strettamente governato dal Partito Comunista Cinese presente con propri distaccamenti in ogni provincia, prefettura autonoma e nella Regione Autonoma Tibetana (TAR). Subordinato al Partito, il Governo ne porta a compimento le direttive. Nella sola Lhasa sono attivi oltre sessanta tra Dipartimenti e Comitati molti dei quali lavorano in stretto contatto con i rispettivi uffici nazionali a Pechino. L’autonomia della TAR è quindi del tutto inesistente: di fatto, la Regione gode di un’autonomia inferiore a quella delle altre province cinesi. E’ significativo che la massima carica del paese, quella di Segretario del Partito, non sia mai stata ricoperta da un tibetano.

Il Partito Comunista mantiene in Tibet un numeroso contingente militare di occupazione (almeno 250.000 uomini). Soldati e poliziotti û spesso in abiti civili û controllano le vie della capitale e degli altri centri urbani. Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, il Partito ha curato l’organizzazione di quadri fedeli alle sue direttive, destinati a controllare capillarmente il territorio tibetano, comprese le aree rurali, allo scopo di sradicare alla base ogni forma di separatismo e di eliminare ogni manifestazione di sostegno al Dalai Lama e al Governo Tibetano in Esilio.

Il Congresso Nazionale del Popolo, riunito a Pechino nel marzo 2003 per la nomina della nuova dirigenza cinese (ricordiamo che il neo Presidente della Repubblica Popolare, Hu Jintao, ricoprì la carica di Segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana alla fine degli anni ’80) ha premiato con incarichi importanti alcuni leader di spicco che, nella passata legislatura, hanno svolto ruoli di primo piano in Tibet. E’ il caso di Zhou Yonkang, capo della Provincia del Sichuan all’epoca dell’arresto e della condanna a morte di Lobsang Dondhup e Tenzin Delek, ora assunto alla carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, e di Chen Kuiyuan, ex segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana negli anni ’90. Chen, sostenitore della ôlinea duraö e fautore delle tre campagne di ôeducazione patriotticaö, ôcivilizzazione spiritualeö e ôcolpisci duroö, è stato eletto membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese di cui figura tra i 24 vice presidenti. Promosso anche il tibetano Ragdi, uno dei vice segretari del Comitato del Partito Regionale Tibetano e presidente del Comitato Regionale del Congresso Nazionale del Popolo (CNP) in Tibet, che ha coronato la sua carriera politica divenendo uno dei 15 vice presidenti del Comitato Centrale dello stesso CNP. In Tibet, Ragdi, acceso sostenitore della politica iniziata dallo stesso Hu Jintao, non ha mai cessato di porre l’accento sull’importanza dello sviluppo economico e della tutela della stabilità sociale attraverso la lotta al separatismo e alla ôcliqueö del Dalai Lama.

Queste ôpromozioniö, e abbiamo citato solo alcuni tra i casi più significativi, sembrerebbero indicare la determinazione del Partito e del governo di Pechino a mantenere il Tibet in una stretta morsa assicurando la continuità della linea politica.

Anche il cambio della guardia ai vertici della Regione Autonoma Tibetana sembra avvalorare questa tendenza. Alla carica di nuovo Presidente del Tibet, al posto di Legchok, è stato eletto Jampa Phuntsog, ex vice segretario del Partito e ora chiamato a svolgere un ruolo di governo. Legchok ha sostituito alla presidenza del Comitato Nazionale del Congresso del Popolo (la più alta carica della TAR) il tibetano Ragdi, trasferito a Pechino dopo 18 anni di servizio nella Regione Autonoma. Le nomine di Phuntsog e di Legchok premiano i lunghi anni di lavoro in Tibet dei due neo eletti e la loro conformità alle direttive del regime.

Segretario del Partito è un cinese, Yang Chuantang, che ha sostituito Guo Jinlong, eletto al prestigioso incarico nel 2000 al posto del ôduroö Chen Kuiyang. Nessun tibetano è mai stato eletto segretario del Partito, ruolo che, di fatto, garantisce la gestione del potere. Yang Chuantang è ritenuto molto vicino a Hu Jintao che lo volle con sé quando era Segretario del Partito in Tibet.


La condizione dei tibetani

In Tibet la situazione rimane grave. Continua l’afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i tibetani ad una minoranza all’interno del loro paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di coloni han contro sei milioni di tibetani. Le attività religiose e la libertà di culto sono fortemente ostacolate, proseguono gli arresti e le detenzioni arbitrarie e i detenuti sono percossi e torturati. Il ômiracolo economicoöcinese non reca alcun concreto vantaggio ai tibetani che sono progressivamente emarginati dal punto di vista sia economico sia sociale. Le stesse grandiose infrastrutture (gasdotti, ferrovie, aeroporti), volute dal governo di Pechino, non sono di beneficio alla popolazione tibetana: favorendo, di fatto, l’afflusso di nuovi coloni, costituiscono un’ulteriore minaccia alla cultura e alle tradizioni peculiari del paese oltre a comprometterne seriamente l’equilibrio ambientale.

Nonostante gli stretti controlli esercitati dalla polizia e dall’esercito, pacifiche dimostrazioni si susseguono sia all’interno della Regione Autonoma Tibetana, in particolare a Lhasa, sia nelle altre Regioni (Kham e Amdo).

Le autorità cinesi rispondono inasprendo imposizioni e divieti. Fonti attendibili hanno riferito che i giorni 11 e 12 novembre 2003, speciali ôgruppi di lavoroö composti di funzionari governativi si sono recati nei villaggi e hanno intimato alla popolazione tibetana delle contee di Kardze e Lithang (Sichuan), composta prevalentemente da contadini, di consegnare tutte le fotografie del Dalai Lama entro un mese, pena la confisca della terra. Il 21 novembre, il governo tibetano in esilio ha definito questa misura ôprovocatoriaö e ha accusato la Cina di volere deliberatamente esasperare la popolazione tibetana del Sichuan per poter pretestuosamente intervenire con la forza.
Dal 2001, la provincia del Sichuan, che in passato aveva goduto di una relativa libertà di culto, è divenuta uno dei punti focali della campagna contro il Dalai Lama e la religione. Tra le personalità di grande spicco oggetto della repressione cinese figurano Geshe Sonam Phuntsok (che attualmente sta scontando una pena detentiva di cinque anni), Tenzin Delek Rinpoche (condannato a morte dopo un processo farsa) e l’abate di Serthar, Jigme Phuntsok, deceduto il 6 gennaio 2004 a Chengdu dopo un’operazione al cuore. A lungo era stato trattenuto dalla polizia mentre il suo monastero era distrutto e i monaci e le monache allontanati con la forza.

Il gruppo d’informazione Tibet Information Network ha reso noto che il 29 agosto 2003 sei monaci residenti nella Contea di Kakhog, Prefettura di Ngaba, (Amdo) sono stati arrestati e condannati a pene detentive varianti da uno a dodici anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza del Tibet. Dopo l’arresto dei religiosi, avvenuto nel corso dell’annuale ôYak Festivalö, il personale dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza ha fatto irruzione nella stanza di uno dei monaci ed ha confiscato numerose fotografie del Dalai Lama e una bandiera tibetana. T.I.N. rileva che questi arresti e le relative condanne costituiscono un fatto senza precedenti in Amdo e si inseriscono nella crescente ondata di repressione in atto nelle regioni al di fuori della Regione Autonoma Tibetana.

Anche nella Regione Autonoma continuano tuttavia gli arresti e le violenze. Il 2 dicembre 2004 si è appreso che Yeshe Gyatso, un tibetano di settantadue anni, ex funzionario governativo, arrestato a Lhasa nel giugno 2003 assieme a due studenti universitari, è stato condannato a sei anni di carcere.
Il 16 dicembre 2004, TibetNet ha diffuso la notizia della morte, in un ospedale di Shigatse, di Tenzin Phuntsok, sessantaquattro anni, arrestato il 21 febbraio 2003 perché sospettato di coinvolgimento in attività politiche ôsospetteö. I tibetani di Khangmar, suo paese natale, ritengono che Phuntsok, in ottima salute prima dell’arresto, sia morto in seguito alle torture subite durante gli interrogatori presso il centro detentivo di Nyari. Lascia la moglie e undici figli. La notizia della morte di Tenzin Phuntsog, giunta solo pochi mesi dopo quella della morte di un altro tibetano, Nyima Drakpa, le cui condizioni di salute si erano seriamente aggravate dopo le torture subite in carcere, propone il problema dell’effettivo rispetto da parte della Cina delle norme contenute nella Convenzione ONU Contro la Tortura, di cui Pechino è firmataria.
Il 16 dicembre 2003, il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha reso noto inoltre che Nyima Tsering, un insegnante sessantacinquenne, è stato condannato dal tribunale di Gyantse a cinque anni di carcere per ôistigazione delle masseö. Il TCHRD ha fatto sapere che la sentenza contro Nyima, arrestato nel dicembre 2002 assieme ad un negoziante con l’accusa di aver divulgato libelli indipendentisti, è stata pronunciata nel giugno 2003. Il tibetano sta scontando la pena nella prigione di Drapchi, a Lhasa.

parliamo anche un po del governo tibetano in esilio:

Tra il 1949 e il 1950, i cinesi occuparono le regioni orientali del Tibet travolgendo la debole resistenza dell’esercito tibetano, poco numeroso e male armato. Il 23 maggio 1951, Pechino impose con la forza "l'Accordo in 17 Punti per la Pacifica Liberazione del Tibet" (in inglese) che sanciva la fine dell’indipendenza del Paese pur nel riconoscimento della sua autonomia. Negli anni che seguirono, l’Esercito di Liberazione arriv? fino a Lhasa dove, il 10 marzo 1959, l’insurrezione popolare dei tibetani, esasperati dai continui soprusi, fu stroncata nel sangue. Il Dalai Lama, seguito da 80.000 tibetani, scelse la via dell’esilio e, nella notte del 17 marzo, lasci? il Palazzo del Norbulinka, dirigendosi verso l’India attraverso le montagne himalayane.

Accolto dal Premier Nehru, che gli assicurò il sostegno del suo governo, il Dalai Lama e il governo tibetano in esilio furono ospitati dapprima a Mussorie, una località montana nello stato dell’Uttar Pradesh. Nel maggio 1960, il governo tibetano in esilio, con il nome di ôAmministrazione Centrale Tibetanaö, fissò la sua sede a Dharamsala, nell’Himachal Pradesh.

Il popolo tibetano, all’interno e al di fuori del Tibet, considera l’Amministrazione Centrale Tibetana (CTA) il suo unico e legittimo governo. I principi inviolabili del rispetto della verità, della non violenza e della democrazia, ai quali la CTA ispira il proprio operato, le hanno valso il riconoscimento di legittimo rappresentante del popolo tibetano anche da parte dei parlamenti e dell’opinione pubblica di tutto il mondo.

L’Amministrazione Centrale Tibetana si adoperò immediatamente non solo per garantire ai profughi alloggio, istruzione e autosostentamento ma anche per porre le basi di un sistema democratico in grado di funzionare in un futuro Tibet libero.
Il 2 settembre 1960 venne istituito un Parlamento, denominato Commissione dei Deputati del Popolo Tibetano, che gradualmente si trasformò in un autentico potere legislativo: l’Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano.

Nel 1990, il Dalai Lama, proseguendo nel processo di democratizzazione delle istituzioni tibetane in esilio, portò a 46 il numero dei componenti l’Assemblea alla quale fu dato potere di eleggere il ôKashagö, il Consiglio dei Ministri. All’Assemblea legislativa fu affiancata la Commissione di Giustizia, il potere giudiziario.
La nuova Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano emanò una Costituzione denominata ôCarta dei Tibetani in Esilioö.

Nel 2001, con un emendamento alla Costituzione, l’Assemblea dei Deputati del Popolo Tibetano votò a favore dell’elezione diretta del Primo Ministro (il ôKalon Tripaö, la più alta autorità dell’esecutivo) da parte dei tibetani in esilio. A sua volta il Primo Ministro designa i candidati responsabili dei vari ministeri la cui nomina deve essere approvata dal Parlamento.
Il primo ôKalon Tripaöeletto direttamente dal popolo è l’attuale Primo Ministro, il professor Samdhong Rinpoche. Resterà in carica fino al 2006.

L’Amministrazione Centrale Tibetana svolge oggi tutte le funzioni di un autentico governo democratico. Ciononostante, non è destinata a governare in un futuro Tibet libero. Nelle sue ôLinee Guida per la Futura Politica del Tibet e Principali Aspetti della sua Costituzioneö, il Dalai Lama ha stabilito che l’attuale governo in esilio si scioglierà nel momento in cui il Tibet avrà ottenuto la propria libertà. Saranno i tibetani residenti all’interno del paese, in un primo momento guidato da un governo ad interim, a scegliere i propri rappresentanti. Il Dalai Lama ha inoltre più volte espresso la propria intenzione di non voler ricoprire alcuna carica all’interno di un Tibet libero, ma di voler essere soltanto un semplice monaco.


 ed ecco i diritti umani in tibet:

Nel 1959, 1961 e 1965, le Nazioni Unite approvarono tre risoluzioni a favore del Tibet in cui si esprimeva preoccupazione circa la violazione dei diritti umani e si chiedeva "la cessazione di tutto ci? che priva il popolo tibetano dei suoi fondamentali diritti umani e delle libertà, incluso il diritto all'autodeterminazione". A partire dal 1986, numerose risoluzioni del Congresso degli Stati Uniti, del Parlamento Europeo e di molti parlamenti nazionali hanno deplorato la situazione esistente in Tibet e all'interno della stessa Cina ed esortato il governo cinese al rispetto dei diritti umani e delle libertà democratiche. Malgrado gli incessanti appelli della comunita internazionale:

il diritto del popolo tibetano alla libertà di parola è sistematicamente violato.
Miglialia di tibetani sono tuttora impriogionati, torturati e condannati senza processo. Le condizioni carcerarie sono disumane.
Le donne tibetane sono costrette a subire involontariamente la sterilizzazione e l'aborto.
I tibetani sono perseguitati per il loro credo religioso.
Monaci e monache sono costretti a sottostare a sessioni di rieducazione patriottica, a denunciare il Dal
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hanabi

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« Risposta #13 il: 07 Agosto, 2007, 09:49:27 am »
e per aver esercitato una loro legale prerogativa, una volta incarcerati, perdono molti altri diritti. Vengono sottoposti a torture fisiche e mentali e tenuti in isolamento, in condizioni ben al di sotto di ogni standard internazionale. Perdono inoltre il diritto a un processo giusto o a qualsiasi garanzia legale, rimanendo privi di ogni possibilità di difendersi dalle accuse.


IL SISTEMA LEGALE CINESE: ôPrima il verdetto, poi il processoö

Secondo l’ordinamento giuridico cinese, diritti legali basilari quali la ôpresunzione di innocenza fino a prova contrariaö e il diritto alla difesa sono sostituiti dalle linee di principio cinesi ôprima il verdetto, poi il processoö, ôclemenza per chi confessa, severità per chi negaö oppure ôcorrezione e rieducazione attraverso il lavoroö.

Durante le indagini, che possono durare da diversi mesi fino a un anno, il sospettato è generalmente tenuto in isolamento e, in molti casi, è ignorata anche la disposizione in base alla quale la polizia deve informare la famiglia del sospettato entro 24 ore dall’arresto.

Molte famiglie non sono mai ufficialmente informate dell’arresto dei loro parenti e sono avvisate solo al momento del processo. Anche allora, le famiglie incontrano molte difficoltà a capire esattamente in quale prigione i loro cari siano detenuti. La mancanza di informazioni rende l’intera esperienza ancora più stressante sia per i prigionieri sia per le loro famiglie.

Nel nuovo Codice di Procedura Penale è stata introdotta l’espressione ôminaccia per la sicurezza dello statoö, che sostituisce l’espressione utilizzata in precedenza di ôcontro-rivoluzionarioö. Questo consente alle autorità cinesi di utilizzare la formula ôsegreto di statoö a giustificazione dell’arresto e della detenzione e negare al sospettato il diritto alla difesa per tutto il periodo delle indagini e degli interrogatori.

Per gli imputati politici Tibetani è molto difficile ottenere un difensore soprattutto per motivi finanziari o per la riluttanza degli avvocati che temono di essere accusati di sostenere i ôseparatistiö.

Gli imputati sono anche restii a ricorrere in appello, poiché i ricorsi sono generalmente inutili e l’Alta Corte si limita a confermare la decisione del tribunale di primo grado, senza rivedere il caso. Chi ricorre in appello pu? anche dover subire un verdetto più severo in quanto il giudice d’appello pu? prolungare la pena detentiva.


LIMITAZIONE DELLA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE

Il diritto alla libertà di espressione e di opinione è chiaramente espresso nell’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: ôCiascuno ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di professare le proprie opinioni senza intromissioni e di chiedere , ricevere o diffondere informazioni o idee attraverso qualsiasi mezzo e senza limiti di frontiereö. Tuttavia, in Tibet, l’esercizio del diritto alla libertà di parola e di espressione non esiste: esprimere una qualsiasi opinione contraria alle politiche del governo cinese è considerato anti-nazionale e le conseguenze sono l’arresto e la detenzione.

La Repubblica Popolare Cinese ha costantemente negato al popolo del Tibet il fondamentale diritto di professare le proprie opinioni politiche o religiose. Per questo motivo la Cina ha avviato, nel 1996, la campagna ôColpisci Duroö che mira a sradicare la fedeltà dei tibetani nei confronti del Dalai Lama, del Panchen Lama tibetano e della stessa nazione tibetana. Inizialmente limitata alle istituzioni monastiche, nel 1999 la campagna è stata estesa a tutto il contesto sociale. Nel gennaio 1999, la Cina a lanciato una campagna a favore dell’ateismo, violando il diritto dei tibetani a professare la loro religione. Qualsiasi espressione pacifica del nazionalismo tibetano o di critica alla politica cinese pu? portare all’arresto.


ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI
Secondo le Nazioni Unite, un arresto si considera illegittimo se effettuato (a) su basi o secondo procedure diverse da quelle previste per legge; oppure (b) secondo previsioni di legge che siano in contrasto con il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona. Tutte le forme di espressione contrarie al Partito Comunista Cinese sono causa di arresto in Tibet. Quasi tutti i prigionieri politici tibetani sono stati arrestati e detenuti arbitrariamente. L’accusa più comune consiste nell’imputazione di ôminaccia alla sicurezza dello statoö. Il nuovo Codice di Procedure Penale cinese non ha introdotto alcuna misura che limiti l’incidenza degli arresti arbitrari e quindi i tibetani corrono ancora il rischio di essere arrestati per aver espresso opinioni contrarie alla ideologia ufficiale cinese. Il problema fondamentale in Tibet è che le considerazioni politiche vengono anteposte alle norme del codice penale.

Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Illegittima, riunitosi in Tibet nel 1997, ha espresso in questi termini la sua preoccupazione: ôanche se l’espressione crimini contro-rivoluzionari è stata abolita, la giurisdizione dello Stato è stata ampliata. Di conseguenza, anche le azioni dei singoli individui, nell’esercizio della propria libertà di espressione e di opinione, possono essere considerate minaccia alla sicurezza nazionale.ö Ci? consente alla Repubblica Popolare Cinese di continuare ad effettuare arresti arbitrari per sopprimere le opinioni sovversive, in aperta violazione del diritto alle libertà civili individuali e del diritto alla libertà di espressione ed opinione.


LE CONDIZIONI CARCERARIE
Le condizioni carcerarie in Tibet sono disumane. Vengono applicati innumerevoli metodi di tortura, sia fisici che psicologici, per estorcere ôconfessioniö o semplicemente come strumenti di umiliazione quotidiana. Le celle sono estremamente piccole rispetto al numero dei prigionieri detenuti e i prigionieri, anche durante l’inverno, generalmente dormono sul pavimento, senza materassi né coperte. L’igiene non viene tenuta in alcuna considerazione: le celle sono sporche, talvolta con escrementi sul pavimento; i prigionieri hanno come unico servizio igienico un bidone che viene tenuto nella cella, spesso nello stesso spazio dove devono mangiare; ci sono pochissime opportunità di potersi lavare ed alle donne non sono forniti gli assorbenti igienici durante le mestruazioni.

Jampel Monlam è uno dei tanti prigionieri politici Tibetani che ha trascorso anni dietro le sbarre per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione. Ha trascorso cinque anni nella prigione di Drapchi dove veniva tenuto in una piccola cella con altri 12 prigionieri. Dormivano tutti in un unico lungo letto e dovevano condividere un bidone come servizio igienico. Durante i suoi cinque anni di detenzione poté lavarsi solo due volte.

Cibo ed acqua sono bisogni umani elementari e devono essere forniti in quantità adeguate. Invece, le autorità cinesi razionano sia cibo che acqua come forma di punizione. Il regime alimentare in prigione è decisamente povero sia per qualità che per quantità. In molti casi il cibo è anche estremamente sporco o cosparso di insetti morti.

Un certo numero di prigionieri politici viene inoltre messo in cella di isolamento quale punizione per le più disparate attività, dall’aver partecipato a manifestazioni di protesta all’aver cantato canzoni inneggianti alla libertà. Questi prigionieri vengono messi in celle buie ed anguste che misurano circa 2 metri per 1 metro, spesso con mani e piedi ammanettati e le loro razioni di cibo sono ulteriormente ridotte. La detenzione in isolamento è una delle peggiori esperienze carcerarie di cui si abbia testimonianza. Negli anni ’80 la Cina introdusse anche una nuova forma di detenzione in isolamento conosciuta come ôcella freddaö. Le piccole celle sono foderate di lamiera così che la temperatura pu? scendere fino a û10? C .

Gaden Tashi fu tenuto in cella di isolamento per 34 giorni nel carcere di Outridu. ôNei primi tre giorni ebbi una paura insopportabile e pensai addirittura al suicidio. Quella cella buia era considerata dalla maggior parte dei prigionieri come una delle più spaventose esperienze che ci potessero capitare à Quando il tempo era bello e c’era il sole, in cella riuscivo appena a vedere le mie mani. Se il tempo era coperto, non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte. Quando fui rilasciato, rimasi cieco per diverse ore, non riuscivo a vedere nulla.ö


LE TORTURE IN CARCERE
Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura crudeli e degradanti che includono, fra gli altri, il ricevere scariche elettriche in ogni parte del corpo per mezzo di un pungolo per bovini e l’essere obbligati a rimanere a piedi nudi sul terreno ghiacciato fino a che la pelle dei piedi non rimane attaccata al terreno stesso.

Le tecniche di tortura impiegate nelle prigioni cinesi cambiano di volta in volta e nuovi metodi di tortura sono messi a punto per non lasciare tracce visibili. Molti ex prigionieri hanno detto di aver sentito dire dagli ufficiali delle prigioni frasi come ôNon ferirlo all’esterno del corpo, mettilo fuori uso con delle ferite interne.ö

Oltre alle torture fisiche, i prigionieri devono subire talvolta veri e propri traumi psicologici. Per obbligarli a denunciare il Dalai Lama o altri compatrioti, gli ufficiali delle prigioni spesso minacciano i prigionieri di fare del male alle loro famiglie.

Le donne prigioniere politiche in Tibet subiscono le forme di tortura più degradanti. Spietati pestaggi, stupri e violenze di tipo sessuale, quali lacerazioni ai capezzoli, l’inserimento di pungoli elettrici per bovini nei genitali o scosse elettriche date tramite cavi elettrici avvolti intorno al petto ed al corpo sono alcune fra le tante atrocità di cui si ha testimonianza.

Nel 1997, la Commissione Internazionale dei Giuristi interrog? in Tibet ex poliziotti, giudici e detenuti e confermò che la tortura dei detenuti politici era una pratica comune.


LE CURE MEDICHE
I prigionieri vengono generalmente ricoverati a seguito delle gravi ferite ricevute durante le torture o per le malattie contratte a causa delle pessime condizioni igieniche. Alcuni ex prigionieri politici hanno riferito che, durante il loro ricovero in ospedale, le famiglie ebbero difficoltà a riconoscerli. Se i prigionieri si ristabiliscono, devono tornare in prigione per finire di scontare la condanna.

I detenuti che vengono ricoverati sono generalmente accompagnati dalle guardie carcerarie e in alcuni casi sono anche ammanettati al letto dell’ospedale. Se, una volta ricoverato, il prigioniero non mostra segni di miglioramento, viene imposto alla sua famiglia di firmare una ôdichiarazione di responsabilitàö, il che significa che dovrà pagare tutte le spese mediche a partire dalla data della firma.

Se una persona è in punto di morte a causa delle torture, viene rilasciata su ôparere medicoö. Questa procedura ha due motivazioni principali: in primo luogo gli ospedali del carcere non hanno le strutture adatte a fornire cure adeguate e, in secondo luogo, se un prigioniero muore fuori dalle mura del carcere, il governo cinese appare meno colpevole.

La Tortura in Tibet


Il 4 ottobre 1988 la Repubblica Popolare Cinese ha ratificato la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite Contro Tortura e Altri Trattamenti o Punizioni Crudeli e Degradanti, e ha rassicurato con queste parole la comunità internazionale: ôla Cina renderà effettivi, in buona fede, gli impegni presi nella Convenzioneö.
Da allora, è stato accertato che oltre 70 prigionieri politici tibetani sono stati torturati a morte e più di cento massacrati per aver partecipato a dimostrazioni a favore dell’ indipendenza. Un giornalista cinese, esponente dell’Associazione dei Giornalisti Cinesi, ha dichiarato che, soltanto nel marzo 1989, più di 450 tibetani, inclusi monaci, monache e civili, furono uccisi per aver preso parte alle dimostrazioni.

Il Comitato Internazionale delle Nazioni Unite contro la Tortura ha ripetutamente chiesto alla Cina di varare nuove leggi e bandire ogni forma di tortura. Nel rapporto stilato nel maggio 1996, il Comitato ha così dichiarato: ôE’ stato un errore inserire la definizione di tortura all’interno del sistema legale cinese nei termini previsti dai provvedimenti della Convenzioneö.
Da quando la Cina occupò il Tibet nel 1959, la tortura è stata usata come principale metodo di repressione contro il popolo tibetano. I prigionieri che maggiormente rischiano la tortura sono i prigionieri politici, molti dei quali sono monaci e monache che sono spesso imprigionati solo per aver esercitato la loro libertà di espressione a sostegno del Dalai Lama.

La Cina dichiara di aderire alla legge internazionale che bandisce completamente il ricorso alla tortura. Nel 1992, Pechino riferì al Comitato ONU contro la Tortura di aver adottato leggi efficaci e altre misure atte a ôproibire rigorosamente tutti gli atti di tortura e garantire che i diritti dei cittadini non fossero violatiö. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dai prigionieri testimoniano che in Tibet la tortura è molto diffusa. Nel rapporto pubblicato nel dicembre del 1997, anche la Commissione Internazionale dei Giuristi dichiara che la tortura è stata, e continua ad essere, normalmente applicata su larga scala in tutta la Cina.


LA TORTURA NEI CENTRI DI DETENZIONE

Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura degradanti e crudeli. Eccone alcuni: essere appesi al soffitto con le mani legate dietro la schiena; essere percossi con bastoni elettrici; subire scosse elettriche su tutto il corpo; essere colpiti con tavole di legno e bastoni; essere assaliti dai cani; essere costretti a rimanere nudi davanti agli altri detenuti, talvolta durante i pestaggi; essere appesi e lambiti da fuochi accesi sotto i piedi che vengono spenti quando ormai gli occhi sono bruciati dal fumo; essere forzati a stare in piedi sul pavimento ghiacciato fin quando la pelle dei piedi si stacca dagli arti; sottostare a lunghi periodi di isolamento e privazione di cibo, acqua e riposo.

Col passare del tempo i funzionari carcerari cambiano le loro tecniche e adottano nuovi metodi di tortura che non lasciano tracce visibili. Molti ex-prigionieri hanno sentito pronunciare dai secondini frasi di questo tipo: ô Non colpirlo all’esterno del corpo, sfiniscilo con ferite interneö.
Oltre alle torture fisiche, i prigionieri sono a volte costretti a subire traumi psicologici. Gli addetti carcerari spesso minacciano di colpire le famiglie dei prigionieri, li costringono a disconoscere il Dalai Lama e li obbligano a denunciare altri tibetani di partecipazione ad attività politiche.

Nel 1989, Lhundrup Ganden, un monaco di trent’anni anni del monastero di Ganden, fu condannato a sei anni di carcere. Nel 1992, temporaneamente paralizzato per le terribili torture subite, fu rilasciato. Il suo racconto fornisce l’idea della brutalità che sperimentò in prigione: ôla tortura peggiore consisteva nel farmi spogliare e percuotermi con bastoni elettrici su tutto il corpo. Alla fine non ero più in grado di dormire supino. La pelle si gonfiava, diventava verde e blu, e c’erano anche dei tagli. Venivano sempre usati bastoni elettrici e filo metallico. Legavano il filo intorno ai miei polsi e la scossa era estremamente dolorosa.ö

Uno dei metodi di tortura più diffusamente descritti da ex detenuti consiste nell’essere legati al soffitto col un fuoco acceso sotto. Spesso nel fuoco viene gettato del pepe che produce un fumo denso e aumenta le bruciature. Jampel Tsering, un monaco del monastero di Ganden, detenuto cinque anni nella prigione di Drapchi per aver guidato una dimostrazione a Lhasa nel 1989, così ricorda: ôQuando gettavano la polvere di pepe nel fuoco, la sensazione di bruciore su tutto il corpo era terribile e, ogni volta, non potevo aprire gli occhi per diverse oreö.


CURE MEDICHE NEGATE ALLE VITTIME DI TORTURE

Il governo cinese dichiara che ai prigionieri sono concessi i trattamenti medici necessari. Al contrario, molte delle morti avvenute per torture e maltrattamenti si sono verificate per mancanza di assistenza medica durante la prigionia. Oltretutto, dopo il rilascio, i detenuti devono accollarsi il costo delle spese mediche. In molti casi, ai detenuti è stato chiesto di risarcire le autorità delle spese sostenute per loro salute durante la prigione e delle spese mediche affrontate in conseguenza dei maltrattamenti subiti.

Phuntsok, un monaco di ventidue anni del monastero di Nalanda, fu arrestato nel febbraio 1995, dopo i duri interventi dei funzionari cinesi a causa della resistenza alla campagna di ri-educazione. Nel centro di detenzione di Gutsa, durante l’interrogatorio, gli ufficiali del PSB lo accusarono di nascondere alcuni documenti e per questo fu torturato. Nel febbraio 1996 fu rilasciato per motivi di salute ma durante la detenzione gli furono sempre negate le cure mediche. Per un certo periodo fu ammesso all’ospedale della Regione Autonoma Tibetana. Le spese per le cure incisero fortemente sulle magre risorse economiche della sua famiglia, anche perché la salute non migliorava. Morì nel marzo del 1999, quasi tre anni dopo il suo rilascio.


DONNE TORTURATE
Oltre ai trattamenti brutali, le donne in prigione devono sottostare ad abusi sessuali. Pestaggi crudeli, digiuni, violenza sessuale, aggressioni da parte di cani feroci e atti sessuali violenti sono tra le più crudeli atrocità di cui è data testimonianza. Tra le violenze di carattere sessuale vanno annoverate le lacerazione dei capezzoli, i bastoni elettrici forzati nella vagina fino a provocare la perdita della conoscenza e il filo metallico avvolto attorno al petto e al resto del corpo accompagnato da scariche elettriche.

Durante la prigionia, la monaca Tenzin Choeden, di diciotto anni, fu violentata sessualmente con un bastone elettrico. Fu arrestata insieme ad altre 12 monache per aver preso parte a una dimostrazione a Lhasa il 14 febbraio 1988. Mentre era detenuta nel centro di Gutsa, quattro carceriere le ordinarono di alzarsi e di mettersi contro il muro. Tenzin ha riferito di aver discusso con le donne e di averne pagato le conseguenze: ôHanno inserito un bastone nella mia vagina per quattro volte con estrema violenza. Poi mi hanno messo il bastone in bocca. Ho provato a tenere la bocca chiusa ma spingevano forte. Ho perso due denti e le mie labbra sanguinavano.ö Dopo essere stata rilasciata, nel 1991, Tenzin scappò in India. A causa dei pestaggi continui e delle torture subite, ha perso un terzo della sua capacità fisica e ha grossi handicap su tutta la parte destra del corpo. Durante la detenzione, alle donne gravide è riservato lo stesso trattamento.


LA MORTE A CAUSA DELLA TORTURA
In seguito al duro trattamento subito, alcuni prigionieri sono morti.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha accertato che, dal 1987 ad oggi, settanta prigionieri sono morti a causa delle torture subite. Solitamente, se a causa delle torture un prigioniero è prossimo a morire, è mandato in ospedale o comunque rilasciato. Una volta in ospedale, si chiede alla famiglia di firmare una ôaccordo di responsabilitàö che impegna i parenti al pagamento delle sue spese mediche. Spesso i detenuti muoiono al di fuori delle mura della prigione rendendo così il governo cinese apparentemente meno responsabile dei loro decessi.

Sonam Wangdu, morì nel marzo 1999 nella sua residenza a Lhasa. Wangdu fu arrestato nell’aprile 1988 perché ritenuto coinvolto nell’uccisione di un poliziotto cinese durante la repressione di una dimostrazione, il cinque marzo di quell’anno. Durante la sua detenzione a Gutsa, fu duramente torturato e riportò danni permanenti a un rene e la rottura della colonna vertebrale. Soffrì di problemi urinari e divenne paraplegico. Secondo Bhangro, un ex prigioniero politico, Wangdu fu picchiato con bastoni elettrici e tenuto ammanettato, gambe e piedi, per un periodo di sei mesi. Fu tenuto appeso dai tre ai cinque giorni e messo in isolamento per una settimana. La sua testa venne tenuta immersa con la forza in un secchio d’acqua e gli fu tolto il sangue senza consenso.

Gli ultimi casi di morte a causa delle torture si sono verificati nella stessa prigione di Drapchi, nel maggio del 1998. In seguito a due dimostrazioni, furono uccisi 11 prigionieri. Tre furono fucilati, tre morirono a causa di crudeli pestaggi, tre morirono per soffocamento, uno fu impiccato e la causa della morte degli altri due rimane sconosciuta.


DONAZIONI DI SANGUE E DI SIERO FORZATE
Il prelievo forzato di sangue è un’altra delle forme di tortura fisica e psicologica utilizzate dai funzionari cinesi. Questo metodo è utilizzato per indebolire fisicamente i prigionieri. Ad altitudini così elevate, una consistente perdita di sangue indebolirebbe anche una persona in ottima salute. Uniti a diete povere e alle torture fisiche, i prelievi di sangue provocano spesso la morte dei detenuti. Poiché i prigionieri non hanno mai saputo il motivo di queste donazioni e non hanno mai ricevuto i risultati di alcun test, è possibile che siano fatte non solo come punizione ma anche per effettuare degli esperimenti.


TORTURE SUI MINORENNI
Malgrado la Cina, nell’aprile 1992, abbia firmato la Convenzione per i Diritti dei Bambini, detenzioni, arresti e torture di giovani al di sotto dei diciotto anni continuano ad essere pratiche usuali in Tibet.
I giovani vengono detenuti nelle stesse carceri degli adulti, viene loro negato un avvocato, non possono avere contatti con le famiglie e sono soggetti alle stesse forme di lavoro forzato e di torture degli altri detenuti.
Sherab Ngawang, che morì all’età di 15 anni, è considerata la più giovane prigioniera politica morta a causa delle torture subite. Per aver cantato con altre monache in prigione, sembra sia stata picchiata con bastoni elettrici e tubi di plastica riempiti di sabbia. Un testimone ha dichiarato: ôLa colpirono fino a quando fu completamente coperta di contusioni tanto che anche noi stentavamo a riconoscerlaö. Altre persone hanno riferito che fu confinata in isolamento per tre giorni e, quando uscì, aveva gravi problemi alla schiena e ai reni. Perse anche la memoria e aveva difficoltà a mangiare. Morì due mesi dopo essere stata rilasciata.


LAVORI FORZATI ED ESERCIZIO FISICO
In tutte le prigioni cinesi in Tibet i detenuti sono costretti a un duro lavoro. Durante il giorno i lavori forzati spesso si accompagnano a esercizi fisici che, uniti a una dieta povera, indeboliscono notevolmente i prigionieri. Spesso in Tibet i detenuti vengono utilizzati nell’agricoltura e nel taglio del legname, settori in cui il lavoro è molto richiesto e gli incidenti più frequenti.
Ai detenuti è in molti casi chiesto di raggiungere determinati ôtargetö di produzione per consentire alle autorità carcerarie di trarre un guadagno dal lavoro dei forzati. Queste quote sono obbligatorie, anche se i detenuti sono malati.

Ngawang Lhundrup, di circa 23 anni, dopo estenuanti interrogatori e torture durante la sua detenzione nella prigione di Gutsa, fu mandato ai lavori forzati. ôQuando ci permettevano di fermarci, la sera, le nostre mani erano piene di vesciche ed eravamo letteralmente esausti.ö

Ngawang Jinpa, anche conosciuto come Lobsang Dawa, morì a Phenpo, suo villaggio natale, il 20 maggio 1999. Dopo il suo arresto, il 6 maggio 1996, Ngawang Jinpa fu detenuto nella prigione di Gutsa per otto mesi dove fu crudelmente picchiato. Secondo le parole di Legshe Drugdrak, un monaco di Nalanda della Contea di Phenpo che divise la cella con Jinpa, ôquando Jinpa arriv? era molto debole. Gli ufficiali continuarono a torturarlo e lo forzarono a lavorareö. Nel marzo del 1999, la salute di Jinpa peggiorò a tal punto che gli ufficiali lo mandarono all’ospedale militare della Regione Autonoma Tibetana, vicino al monastero di Sera, dove gli furono diagnosticati danni al cervello. Le sue condizioni erano così critiche che le autorità cinesi lo rilasciarono per motivi di salute il 14 marzo 1999. Quando morì aveva 31anni.

L’incapacità di fare un qualsiasi esercizio nel modo richiesto è immediatamente punito, di solito con pestaggi. I detenuti risentono molto di queste esercitazioni, non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il controllo mentale loro richiesto.

La discriminazione razziale


All’interno del loro paese, i tibetani hanno subito ogni genere di violazioni dei diritti umani e discriminazioni razziali. La Costituzione cinese e la Legge sull’Autonomia Regionale delle Etnie affermano che la Regione Autonoma Tibetana (TAR) ôgode dei più ampi diritti di autonomia sia in materia di legislazione, dell’uso delle lingue locali parlate e scritte e dell’amministrazione del personale, sia in campo economico, finanziario, scolastico e culturale, della gestione e lo sviluppo delle risorse naturali e in altri settoriö.

Nel 1981 la Cina ha accettato formalmente di rispettare le leggi internazionali menzionate nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale (International Convention on the Elimination of all forms of Racial Discrimination, CERD) che proibisce ogni distinzione, esclusione o preferenza basate su razza, colore, discendenza oppure origini etniche o nazionali.

Malgrado queste garanzie legali, i tibetani, definiti ôminoranza razzialeö dalla Repubblica Popolare Cinese, subiscono discriminazioni in ogni settore.
La discriminazione sistematica in campo sanitario, educativo, lavorativo, abitativo e della rappresentatività pubblica, continua a ostacolare la partecipazione dei tibetani allo sviluppo del proprio paese e ne ha svilito la posizione sociale al punto che, solo a causa della loro razza, sono considerati cittadini di rango inferiore. Se non saranno prese misure per porre rimedio alle discriminazioni prima che il Tibet occupato diventi la tomba di un’intera nazione, le ingiustizie e le disuguaglianze diverranno, entro breve, irrevocabili.


L’IMPIEGO
Il trasferimento di popolazione cinese in Tibet costituisce una delle minacce più gravi per l’impiego. Il massiccio afflusso dei cinesi è stato incentivato da salari più alti, ferie più lunghe, esenzioni fiscali e da migliori condizioni in materia di pensioni e investimenti.
I tibetani sono inoltre discriminati in molti settori. La maggioranza dei rifugiati riferisce che i datori di lavoro esigono la perfetta conoscenza della lingua cinese, indipendentemente dal tipo di lavoro. I tibetani sono vittime di pregiudizi e, essendo considerati incapaci e arretrati, sono loro offerti solo lavori umili, spesso a patto che, nella vita privata, abbandonino le usanze tipiche della loro cultura. La corruzione è prassi comune per ottenere un posto di lavoro ed è l’unico modo per spezzare quella rete di connessioni che assicura ai cinesi, proprietari della maggior parte delle imprese private e detentori di tutte le posizioni chiave, ogni tipo di lavoro e permesso.

Spesso i tibetani sono costretti a pagare per ottenere le licenze di commercio, da cui i cinesi sono esentati, e devono depositare cospicue somme, parimenti non richieste ai cinesi, per ottenere prestiti. Ai cinesi sono inoltre assegnati i migliori punti vendita e i prodotti tibetani sono plagiati e venduti sotto costo nel tentativo di metterli fuori mercato. Spesso gli agricoltori sono costretti a vendere i loro prodotti al governo a prezzi inferiori a quelli di mercato con il conseguente aumento della povertà contadina e le famiglie devono fornire manodopera coatta per progetti di sviluppo che spesso non recano alcun vantaggio ai tibetani. La discriminazione è evidente anche nei salari percepiti, a parità di lavoro, da cinesi e tibetani. Nortso, 29 anni, nel gennaio 2000 ha riferito che a Ngamring, prefettura di Shigatse, i tibetani impiegati nelle costruzioni stradali venivano pagati 15-25 yuan al giorno, contro i 40-80 dei cinesi. Quando lavorava nella costruzione di un ufficio per le telecomunicazioni, Nortso riceveva solo 10 yuan al giorno, mentre i cinesi ne guadagnavano 50.



LA SALUTE
Il Libro Bianco cinese sui Diritti Umani del febbraio 2000 afferma che in Cina tutti i cittadini hanno diritto a ôservizi medici gratuiti e a un sistema previdenziale di cure mediche per i lavoratori a carico dello statoö. I rifugiati testimoniano invece che le cure mediche sono a pagamento, spesso in modo discriminatorio. Molti hanno rivelato di avere dovuto pagare le medicine a un prezzo maggiorato e che ai nomadi analfabeti sono prescritti farmaci scaduti o sbagliati. Inoltre sono negate le cure mediche ai tibetani che riportano ferite in seguito ad attività che le autorità considerano ôpoliticheö.

Per il ricovero in ospedale, i pazienti tibetani devono inoltre versare un deposito che varia da 2.000 a 5.000 yuan. Anche se rimborsabile, in molti casi l’importo del deposito risulta proibitivo. Nel 1998, la somma richiesta, pari a 5.000 yuan, era cinque volte superiore al reddito annuo netto della popolazione rurale e pari al reddito pro capite dei residenti urbani. Secondo numerosi rapporti, al mancato pagamento segue la negazione del ricovero e la morte del paziente per mancanza di cure. I cinesi, per contro, non devono pagare nulla.

Preoccupa soprattutto la violazione dei diritti riproduttivi delle donne tibetane. Tutti i tibetani, indipendentemente dalla regione d’origine, età o professione, sono soggetti a un rigido controllo delle nascite affinché siano rispettate le quote ufficiali stabilite. In Tibet, il numero dei figli è importante perché i tibetani, soprattutto nelle campagne, hanno bisogno di famiglie numerose per sopravvivere. Le donne che hanno avuto due figli sono obbligate a farsi sterilizzare, spesso con interventi sommari, in alcuni casi mortali. Le tibetane sono costrette ad abortire anche al settimo od ottavo mese di gravidanza, in molti casi senza anestesia. Spesso, di fronte alla minaccia di multe salate o di altre gravi sanzioni, non hanno altra scelta. Queste norme sono applicate malgrado il livello della mortalità infantile tra i tibetani sia tre volte superiore a quello registrato nel territorio cinese. Anche in Cina le donne devono sottostare al controllo delle nascite, ma in Tibet, data la scarsa densità della popolazione e in considerazione del fatto che il suo tasso di crescita è inferiore ai limiti fissati dal governo, tale misura non pu? essere vista che come una forma di discriminazione e un tentato genocidio.


L’ ISTRUZIONE
La stragrande maggioranza dei bambini tibetani pu? frequentare la scuola solo per pochi anni. Poi la devono abbandonare a causa delle spese esorbitanti, della discriminazione in favore dei cinesi o anche solo perché gli allievi non sono in grado di seguire le lezioni in lingua cinese. Numerosi rapporti confermano che agli studenti tibetani è negato l’accesso alle scuole migliori e all’educazione superiore perché i posti disponibili sono riservati ai cinesi o a figli di funzionari tibetani che lavorano per il governo. Inoltre gli studenti cinesi ricevono, in classe, un insegnamento preferenziale.
I cinesi stessi ammettono che il 30% dei bambini tibetani in età scolare non riceve alcuna istruzione (contro una percentuale dell’1,5% dei bambini cinesi), a causa delle tasse scolastiche proibitive imposte dalle autorità di Pechino e considerate ôinapplicabiliö nei confronti degli studenti cinesi. Gli studenti riferiscono inoltre che agli esami di ammissione i tibetani devono conseguire voti più alti e che, per assicurarsi la prosecuzione degli studi, la corruzione è una prassi comune.

Un’ulteriore discriminazione è rappresentata dallo stanziamento di fondi speciali per le scuole cinesi, mentre nelle aree rurali (dove vive più dell’88% delle famiglie tibetane) le comunità locali sono obbligate a costruire le scuole e a finanziare l’istruzione a proprie spese. L’impostazione culturale dei corsi è tendenziosa e durante gli esami vengono poste domande ideologiche e politiche. Le autorità della Regione Autonoma hanno affermato in modo esplicito che ôl’essenza del compito educativo e l’unica ragione d’essere dell’istruzione della minoranza nazionale è quella di crescere sostenitori e divulgatori qualificati della causa socialistaö. Inoltre i bambini sono indottrinati costantemente sulla grandezza dei capi della Cina comunista.


LA CASA
Allo scopo di garantire un alloggio all’alto numero di immigrati cinesi, i centri urbani hanno subito consistenti trasformazioni architettoniche e oggi molti tibetani vivono nella minaccia di sfratti e demolizioni o di restare senza casa.

La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi avviene in quanto agli immigrati cinesi arrivati a Lhasa è garantita un’abitazione e nelle agenzie preposte all’assegnazione delle case la corruzione è ampiamente diffusa. Ogni informazione circa nuove abitazioni è tenuta riservata all’interno della cerchia cinese e, di conseguenza, i tibetani non sono al corrente sulle possibili disponibilità. Anche gli affitti spesso sono troppo cari per essere accessibili.

Molti tibetani riferiscono di essere stati sfrattati in modo arbitrario perché l’edificio era stato definito ônon sicuroö o non corrispondente ai parametri cinesi di ôbellezzaö. Molti proprietari non sono risarciti e sono trasferiti in condomini, in appartamenti più piccoli e con affitti più cari, o addirittura rispediti nei villaggi d’origine. Una ricerca approfondita ha rivelato che i nuovi edifici sono di qualità inferiore, quanto a dimensioni, fornitura d’acqua, scarichi, elettricità e fognature, rispetto alle case tradizionali tibetane.

La discriminatoria distribuzione dei contributi per le abitazioni fa sì che i cinesi fruiscano di servizi migliori, come acqua, elettricità e servizi sanitari appropriati, negati ai tibetani. Assieme al sistema di assegnazione degli alloggi, questa politica si traduce in una segregazione residenziale che vede gli spartani quartieri tibetani soffocati da quelli più nuovi e più grandi destinati ai cinesi. La situazione dei contadini tibetani è anche peggiore poiché più del 70 % di tutti i sussidi abitativi è destinato alle aree urbane della Regione Autonoma. Inoltre, il governo discrimina i tibetani limitando drasticamente la possibilità di trasferimento in città dei tibetani residenti nelle zone agricole, mentre permette agli immigrati cinesi non residenti di spostarsi liberamente. Al contrario dei cinesi, i tibetani sono soggetti a controlli costanti del permesso di residenza.


RAPPRESENTATIVIT? PUBBLICA
Anche se, nella Regione Autonoma, il 48% dei funzionari che dirigono i dipartimenti regionali o di livello superiore è costituito da tibetani, questo dato non è indicativo di una classe di governo rappresentativa. Si controlla con molta attenzione che tutti i tibetani impiegati siano ôpoliticamente pulitiö, puliti da qualsiasi idea opposta alla politica del Partito. La Cina concede ai tibetani il diritto di votare ed eleggere i capi politici della Regione Autonoma, ma il popolo tibetano non pu? proporre i propri candidati che sono invece tutti scelti in anticipo dalle autorità cinesi e sono membri del Partito o filo cinesi.

Ai funzionari è proibito sostenere il Dalai Lama o qualsiasi attività a favore dell’indipendenza. Devono essere d’accordo con la versione cinese della storia tibetana e non devono avere nessun parente monaco o monaca, nemmeno in una sola contea. Nonostante questi controlli, i funzionari sono comunque soggetti a perquisizioni domiciliari arbitrarie e sul lavoro subiscono la presenza di ôosservatoriö cinesi che ne sorvegliano le decisioni. Nella Regione Autonoma, la lingua parlata da chi ricopre incarichi ufficiali è solo quella cinese. Di conseguenza, alla maggioranza dei tibetani è impedito accedere e partecipare alla vita politica.


TRASFERIMENTO DELLA POPOLAZIONE
Il massiccio trasferimento di popolazione in Tibet, incoraggiato dal governo, non solo viola i diritti dei tibetani, ma minaccia direttamente la loro sopravvivenza e la loro peculiare cultura.

Documenti del Partito Comunista rivelano che, oltre a fornire nuove aree di insediamento alla crescente popolazione cinese, la politica del trasferimento è stata adottata per indebolire la resistenza tibetana e controllare i dissidenti.
Oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso paese. Secondo le stime del governo tibetano in esilio, i tibetani in Tibet sono circa 6 milioni, contro 7,5 milioni di non-tibetani. La disparità continua ad aggravarsi poiché i rifugiati fuggono dal Tibet e i cinesi continuano ad affluire nel paese. I cinesi in Tibet dominano la vita commerciale, politica e sociale e sopravanzano numericamente i tibetani nelle prefetture e contee non comprese nella Regione Autonoma. La popolazione a Lhasa è passata dai 30.000 abitanti del 1959 ai circa 200.000 di oggi. Di essi, un numero compreso tra il 60 o 70% sono cinesi.

La repressione religiosa in Tibet


ôIn Tibet, la persecuzione religiosa è strettamente legata alla repressione del dissenso politico. La grande maggioranza dei prigionieri politici tibetani conosciuti da Amnesty International sono monache e monaci buddisti.ö
Amnesty International

Essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e culturale tibetana,
l’ostilità cinese nei confronti della religione è determinata, in Tibet, dal timore che attorno ad essa si cementi il sentimento di unità nazionale dei suoi abitanti. Il governo cinese reprime inoltre la libertà di culto in quanto, conferendo la religione al Dalai Lama lo status di leader spirituale e temporale del popolo tibetano, i credenti obbediscono al Dalai Lama e alla sua politica che il governo di Pechino apertamente rifiuta.
Tutti questi fattori fanno del buddismo tibetano il simbolo del nazionalismo del popolo del Tibet e, di conseguenza, è considerato dalle autorità cinesi ôdistruttivo e controversoö. Per le autorità di Pechino, il problema religioso è un problema politico e le sue istituzioni sono considerate centri di ribellione che devono essere soppresse.


LA REPRESSIONE RELIGIOSA

La campagna di repressione religiosa iniziata dalla Repubblica Popolare Cinese nei confronti delle istituzioni religiose tibetane non accenna a diminuire malgrado la Cina continui a sostenere di fronte alla comunità internazionale che i tibetani godono di libertà di religione.

Nel ôLibro Bianco sui Diritti Umani in Tibetö, redatto nel 1998, la Cina così asseriva:

ôla Costituzione cinese stabilisce che la libertà di un credo religioso è uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Il governo cinese rispetta e protegge il diritto di libertà di credo religioso dei suoi cittadini.ö

La legge cinese stabilisce inoltre che i funzionari che privano i cittadini di questa libertà sono soggetti a due o più anni di reclusione. Ad oggi, tuttavia, nessun funzionario è stato accusato di questo crimine, malgrado le palesi violazioni della libertà di culto.
Al contrario, lo stesso il governo cinese attua politiche e programmi miranti alla soppressione del diritto dei tibetani a praticare la propria religione. Tra questi, ad esempio, la campagna chiamata ôColpisci Duroö, destinata a colpire severamente le istituzioni religiose.
Da quando l’Esercito di Liberazione del Popolo è entrato in Tibet, nel 1949, oltre 6000 tra istituzioni religiose e monumenti sono stati distrutti nel tentativo di ôriunire il Tibet alla madrepatriaö.
Sebbene alcuni monasteri siano stati ricostruiti e a monaci e monache sia stato ôpermessoö di praticare il buddismo, il diritto alla libertà di credo è stato severamente limitato. Le istituzioni ricostruite con l’assistenza dei cinesi sono solitamente solo quelle accessibili ai turisti o quelle più conosciute. Per fare un esempio, la facciata del monastero di Drepung, a Lhasa, è stata magnificamente ricostruita ma le strutture interne sono ancora in rovina.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia continua a documentare la diffusa repressione di libertà di religione in Tibet.
Da quando la Cina lanci?, nell’aprile del 1996, la campagna nazionale ôColpisci Duroö contro le istituzioni religiose tibetane, continua la sistematica repressione della libertà di credo. Ai monaci e alle monache è completamente negata ogni libertà di espressione e a centinaia sono stati espulsi dai monasteri o arrestati per aver disubbidito agli ordini.

I diritti culturale e religiosi sono internazionalmente riconosciuti come diritti umani. L’appartenenza di questi diritti alla legge internazionale sta a significare che il loro rispetto riguarda l’intera comunità mondiale. Il diritto di libertà di credo è contenuto nell’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e per questo è applicabile a tutte le nazioni.


LA CAMPAGNA DI ôRI - EDUCAZIONE PATRIOTTICAö

Nel tentativo di sopprimere le ôattività separatisteö, nell’aprile del 1996 la Cina lanci? la campagna ôColpisci Duroö, un programma di ôri-educazione patriotticaö applicato a tutte le istituzioni religiose in Tibet.
I ôgruppi di lavoroö, composti principalmente da funzionari dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza (PSB), svolgono minuziose sessioni di ri-educazione. Il loro compito principale consiste nell’identificazione, nell’espulsione o nell’arresto di monaci e monache considerati ônon patriotticiö, di coloro che esprimono una qualsiasi opinione contraria alla politica del partito o che non sono d’accordo con i cinque punti che tutti i monaci e monache sono costretti a sottoscrivere.
Questi i cinque punti sono da rispettare:

À Dichiarare la propria opposizione a ogni forma di separatismo
À Accettare la versione cinese della storia del Tibet
À Riconoscere il Panchen Lama designato da Pechino
À Negare lo status indipendente del Tibet
À Denunciare il Dalai Lama come ôtraditore della madrepatriaö

Secondo alcuni testimoni, per convincere i monaci e le monache della bontà delle loro idee, i ôgruppi di lavoroö, durante le sessioni di ri-educazione, non esitano a ricorrere alla violenza. I dissensi aperti di solito portano all’arresto.

Dall’inizio della campagna, più di 10.569 monaci sono stati espulsi dai loro monasteri e, al giugno 1999, almeno 511 risultano essere stati arrestati. Tra gli espulsi ci sono almeno 3.073 giovani monaci e monache al di sotto dei 18 anni.

Le monache del monastero Rating Samtenling, nella Contea di Phenpo Lhundrup, sono state sottoposte alla campagna di ri-educazione dal luglio del 1998. I funzionari del ôgruppo di lavoroö setacciarono le abitazioni di tutte le monache e le costrinsero a firmare documenti di denuncia del Dalai Lama e ad accettare ôl’unità della madrepatriaö.
A seguito del rifiuto delle monache a firmare questi atti, le sessioni ri-educative furono prolungate di due mesi. Alle monache fu limitato qualsiasi contatto con i propri famigliari e non fu loro consentito di andare in visita a casa.
Ottanta monache che si rifiutarono di conformarsi alle istruzioni ricevute furono soggette ad ulteriori restrizioni e fu loro proibito di partecipare alle funzioni religiose. Quattordici monache furono espulse e solo centocinque furono lasciate nel monastero.
Precise istruzioni delle autorità cinesi sancirono la chiusura di tutti i centri religiosi coinvolti in agitazioni politiche. Per questa ragione furono chiusi quindici monasteri.

Nel luglio del 1998, un ôgruppo di lavoroö composto da dieci funzionari visitò il monastero di Gonsar nella Contea di Lhundup (completamente demolito durante la Rivoluzione Culturale e ricostruito nel 1991 con il contributo dei tibetani locali) e diede inizio alla ôri-educazione patriotticaö dei venti monaci che vi risiedevano.
I monaci rifiutarono in modo deciso di ubbidire agli ordini affermando di essere dei religiosi e di non poter contravvenire alle regole della propria fede. Malgrado le obiezioni, i funzionari cinesi insistettero nella loro opera di persuasione incontrando la continua opposizione dei monaci.
Alla fine il ôgruppo di lavoroö annunci? che il monastero sarebbe stato chiuso e che tutti i monaci avrebbero dovuto far ritorno alle rispettive abitazioni. Verso la fine dell’agosto 1998, i venti monaci fecero ritorno ai loro villaggi e il monastero fu chiuso. Ai religiosi fu inoltre impedito di entrare in altri monasteri o di praticare servizi di preghiera nelle loro case.

Il 20 marzo 1998, una trentina di funzionari del PSB visitarono il convento di Draylb, a Lhasa. Secondo quanto riferito da una ex monaca, Tenzin Dolma, su un totale di centocinquanta monache residenti, solo le piccole religiose di età non superiore ai cinque anni ebbero il permesso di restare. Tutte le altre furono espulse dopo che le monache, in pellegrinaggio a Lhasa per le festività dell’anno nuovo, si rifiutarono di tornare al convento e di rinnegare il Dalai Lama.
I funzionari distrussero tutte le camere delle monache e rimossero i pilastri di legno e le intelaiature delle finestre.


IL TOTALE CONTROLLO SULLE ATTIVITA’ RELIGIOSE

Dall’inizio della campagna di ôri-educazione patriotticaö, i funzionari cinesi dei ôgruppi di lavoroö continuano a limitare le attività religiose dei monasteri e conventi. Scopo della campagna è di controllare la religione attraverso il controllo delle menti dei religiosi tibetani.

Nel giugno 1994, il Terzo Forum Nazionale del Lavoro in Tibet decise un maggior rigore nei confronti delle istituzioni monastiche. A questo scopo furono istituiti all’interno di ogni monastero dei ôComitati di Gestione Democraticaö, destinati a sostituire l’autorità tradizionale degli abati e dei lama. Le autorità di stato affidarono a questi comitati l’incarico di decidere in merito all’ammissione nel monastero, al programma di studi e alla disciplina dei monaci e monache.
Oggi, i monasteri e i conventi sono sotto il controllo dei ôgruppi di lavoroö cinesi, mandati per indagare sui dissensi e per portare avanti le sessioni rieducative.
Centinaia di monaci e monache sono stati arrestati per attività politiche. E’ considerata ôattività politicaö anche il solo possesso di foto del Dalai Lama, loro leader spirituale.
Molti altri continuano ad essere espulsi dai propri monasteri e conventi. Tenpa Rabgyal, un monaco di 27 anni del monastero di Tash-Ge-Kunphel Ling, fu arrestato nel febbraio del 1998 per aver scritto delle preghiere auguranti lunga vita a sua Santità il Dalai Lama.

Le sessioni di educazione politica sono lunghe e interferiscono pesantemente negli studi dei monaci e delle monache. Inoltre, è stata abolita la tradizionale lettura delle sacre scritture all’interno delle case tibetane e deve essere richiesto uno speciale permesso per alcuni insegnamenti. Il governo controlla dove e come avvengono le cerimonie religiose. I ritratti del Dalai Lama, già banditi all’interno delle istituzioni religiose, sono ora vietati anche nelle case private.
Ai tibetani è stato proibito di celebrare il compleanno del Dalai Lama. Una settimana prima del 64? compleanno di Sua Santità, le autorità cinesi hanno distribuito volantini che rendevano esplicito tale divieto. La celebrazione del compleanno del Dalai Lama è considerata un atto di propaganda separatista e un’istigazione delle masse ad opporsi al governo cinese.
Molti monaci e molte monache sono stati allontanati dalle istituzioni religiose a causa del ôtettoö numerico massimo introdotto dai membri dei ôgruppi di lavoroö. Questa misura restrittiva fissa il numero di monaci/monache consentiti all’interno di ogni monastero o convento. Inoltre, le autorità cinesi hanno introdotto disposizioni riguardanti il limite massimo e minimo di età dei religiosi decretando l’espulsione dei monaci di età inferiore ai 18 anni e superiore ai 50. L’allontanamento forzato dei religiosi al di sopra dei cinquant’anni minaccia la sopravvivenza della tradizione del buddismo tibetano poiché gli anziani hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione degli insegnamenti.


LA PROIBIZIONE DEL DIRITTO DI PRATICARE LA RELIGIONE IN CARCERE

L’arresto dei prigionieri politici non costituisce soltanto una punizione. Per le autorità cinesi è anche il mezzo per tentare di annullare il sentimento di identità tibetana. A questo fine, ai monaci detenuti è proibita la pratica della religione e spesso viene loro imposto l’obbligo di denunciare il Dalai Lama, loro leader politico e spirituale. Mentre i tibetani, nella vita di tutti i giorni, subiscono forti limitazioni nella pratica della religione, nelle prigioni cinesi esiste il divieto assoluto di qualsiasi forma di culto.
I monaci e le monache in prigione sono costretti a farsi crescere i capelli, non è loro permesso di prosternarsi né di indossare gli abiti religiosi. Il semplice atto di pregare ad alta voce è proibito e le punizioni per aver rotto questa æregola del silenzio’ includono abusi fisici e verbali.
Gyaltsen Pelsang, una monaca arrestata all’età di 13anni, ha dichiarato: ôSe, in carcere, recitavamo mantra o altre preghiere, eravamo immediatamente picchiatiö.
La religione è una delle più potenti espressioni della cultura del Tibet e la sua pratica è molto importante per i prigionieri tibetani dei quali molti sono monache e monaci

Le condizioni economiche dei tibetani in Tibet


Il governo cinese ha ripetutamente ribattuto alle critiche sul tema dei diritti umani in Tibet ponendo l’accento sullo sviluppo e la crescita economica conseguiti negli ultimi decenni. Tale argomentazione viene ripresa anche in un libro bianco sui diritti umani pubblicato il 17 febbraio 2000, in cui nuova enfasi viene data al diritto allo sviluppo : ôà in termini di priorità, viene data la massima precedenza al diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppoö .

Questo fascicolo analizza alcuni aspetti del cosiddetto ôsviluppo del Tibetö e in che misura il diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo siano ôgarantitiö al popolo Tibetano.

Un crescente numero di rifugiati fuggiti dal Tibet e le loro testimonianze indicano che c’è stata una effettiva crescita economica del Tibet, specialmente nelle aree urbane, ma che di questa crescita hanno beneficiato principalmente i coloni cinesi.

Ci? è confermato dalle cifre ufficiali fornite dai cinesi che mostrano come i residenti nelle aree urbane costituiscano il 23,7% della popolazione totale della Regione Autonoma del Tibet (ôTARö) mentre meno del 5% dei Tibetani vive in quelle stesse aree. Inoltre la spesa pubblica destinata agli abitanti delle aree urbane è di 29 volte superiore a quella destinata ai residenti nelle aree rurali.
Inoltre, fra il 1991 ed il 1996, nelle zone urbane l’incremento del reddito annuo [pro capite] è stato del 250% rispetto ad un incremento nelle zone rurali solo del 50% nello stesso periodo.

La povertà dilaga fra i tibetani residenti nelle aree rurali e, nel Tibet Centrale, circa 300.000 famiglie vivono sotto la soglia di povertà che, secondo la definizione ufficiale del governo cinese, si applica a persone con un reddito annuo pro capite di meno di 650 yuan (USD 80). Peraltro, utilizzando lo standard internazionale di povertà di 1 dollaro al giorno, praticamente tutte le zone rurali del Tibet vivono sotto la soglia della povertà.


I PROGETTI DI SVILUPPO
Nel 1994 fu lanciata da Pechino una importante campagna per ôspalancare le porte del Tibet alle zone interne del paeseö e incoraggiare ôcommercianti, investimenti, aziende e privati a spostarsi dalla Cina al Tibet Centrale per avviare ogni genere di iniziativa imprenditorialeö.
Nell’ambito di questa strategia furono approvati 62 progetti di sviluppo, molti dei quali concentrati nelle zone urbane e solo 9 dedicati all’istruzione ed alla salute.

I grandi e costosi progetti, quali dighe e strade, non hanno alcuna influenza positiva sulla popolazione locale. In realtà molto del denaro speso per i progetti è prosciugato dai costi amministrativi del progetto stesso. Una larga percentuale dei progetti è poi destinata al fallimento a causa della cattiva gestione o dell’inadeguata pianificazione e ci? non porta alcun beneficio ai tibetani.

Inoltre, la preferenza accordata a progetti di vasta portata che riguardano infrastrutture, attività di estrazione mineraria o aziende di proprietà dello stato, incoraggiano l’afflusso di personale cinese in Tibet. I lavoratori cinesi ricevono spesso salari che sono tre o quattro volte più alti rispetto a quelli delle altre province. I tibetani vengono raramente assunti e rappresentano solamente il 5-10% della forza lavoro impiegata nei progetti e nelle industrie sotto il controllo cinese.

Tamdin Tsering , 21 anni, originario della contea di Machu, il 20 gennaio 2000 riferì che su 23.000 lavoratori della miniera di oro di Zoege Nyima, solamente 45 erano Tibetani. Un’altra fonte, un uomo di 20 anni dal Kham che preferisce restare anonimo, fornì particolari circa un progetto riguardante una centrale idroelettrica a Mira Dotse, il cui contratto di costruzione fu affidato a una società cinese che assunse lavoratori sia cinesi che tibetani. La retribuzione degli operai cinesi era di 20 yuan al giorno mentre la retribuzione dei tibetani era di 10 yuan al giorno.

Molti rifugiati tibetani riferiscono che non venivano impiegati nei principali progetti di sviluppo ma che veniva loro richiesto di contribuire a quegli stessi progetti con lavoro non retribuito, tasse assurde o con la loro terra.


IL LAVORO OBBLIGATORIO
Il lavoro forzato viola leggi internazionali applicate da lungo tempo.
Tuttavia il programma di riduzione della povertà adottato da Pechino pone un particolare accento sullo ôsfruttamento del potenziale esistente per favorire lo sviluppo delle aree più povereö.

Ci? è in buona parte ottenuto attraverso il lavoro pubblico o ôyigong daizhenö che significa ôoffrire lavoro invece di [aiuto]ö. Il programma si concentra su numerosi progetti di miglioramento delle infrastrutture, quali la costruzione di strade e impianti o la ristrutturazione di attrezzature e la tutela delle acque.

La maggior parte dei rifugiati arrivati di recente in India e Nepal riferiscono che a tutti i tibetani di ogni parte del Tibet viene richiesto un mese di lavoro obbligatorio ogni anno con pesanti ammende per coloro i quali non si presentano.

Samdup, un nomade di 30 anni dalla contea di Saga, prefettura di Shigatse (TAR), arrivato in Nepal l’11 gennaio 2000, riferisce che tutti gli abitanti della sua zona di età compresa fra i 16 e i 58 anni erano obbligati a lavorare alla costruzione di una strada senza essere pagati. Agli uomini sono imposti 25 giorni di lavoro obbligatorio l’anno mentre alle donne 15 giorni. Ci sono multe per le assenze.

ôSe hai più di 18 anni e meno di 60, nell’arco di un anno devi fare più di 20 giorni di lavoro obbligatorio" diceDawa, un agricoltore di 18 anni dalla contea di Kyirong, prefettura di Shigatse (TAR) che è arrivato a Dharamsala il 25 gennaio 2000. ôSe sei malato puoi stare a casa ma devi poi completare il lavoro pattuito. E’ possibile mandare qualcun altro al tuo posto. Il supervisore del lavoro obbligatorio è cinese. Se non lavori sodo vieni ripreso. Il lavoro inizia alle 10.00 del mattino e prosegue fino alle 8.00 di sera. Non ci sono pause tranne un’ora per il pranzoö.


GLI ESPROPRI
Oltre al lavoro obbligatorio, a molti tibetani viene chiesto di contribuire allo ôsviluppoö del Tibet con la propria terra. Quando i progetti di sviluppo necessitano di terreni agricoli, questi vengono espropriati ad agricoltori e pastori, che non vengono risarciti, con la giustificazione che la terra appartiene al governo cinese.

La giurisprudenza internazionale riconosce il diritto all’indennizzo nei casi in cui il governo subentri nella proprietà. Dunque, anche se la Repubblica Popolare Cinese pu? espropriare terreni per scopi pubblici, dovrebbe pagare agli agricoltori un prezzo equo e giusto. Il mancato rispetto di questa norma viola le leggi internazionali.

Un uomo di 22 anni di Gyantse denuncia di aver perso metà della sua terra a causa della costruzione di un fabbrica di materiale plastico. La costruzione della fabbrica era iniziata nel 1997 e il suo completamento era previsto per il 2000. Circa 20 famiglie (o metà dei contadini) hanno perso tutto il loro terreno. Nessuno è stato risarcito perché il governo ha sostenuto che la terra apparteneva al partito comunista.


LE TASSE IMPOSTE AI TIBETANI
Una quota elevata della produzione e del reddito dei tibetani ritorna al governo cinese sotto forma di tasse di ogni genere. Gli immigrati cinesi sono dispensati dal pagamento della maggior parte di queste tasse mentre il carico fiscale cresce per i tibetani quanto più aumenta il numero dei progetti di sviluppo.

Le autorità cinesi hanno fatto ispezioni, suddiviso e inutilmente recintato la terra. I costi di tutto questo lavoro sono stati fatti pagare agli agricoltori e ai pastori.

La tassa più comune è una parte del raccolto degli agricoltori. Rinchen, di Rebkong, nell’Amdo, riferisce che alla sua famiglia è stato richiesto di pagare metà del raccolto ai cinesi. Wongchen Nyendar, 19 anni, di Dwerlung, ha riferito al Centro Tibetano per i Diritti Umani e la democrazia (TCHRD) che alla sua famiglia, che coltiva orzo e possiede tre mucche ed uno yak, è richiesto di pagare una tassa di 150 chilogrammi di orzo l’anno a persona.


L’IMPATTO DEI PROGETTI DI SVILUPPO
La logica del governo cinese in Tibet ha le stesse caratteristiche di quella utilizzata dalle potenze occidentali durante il periodo coloniale: i paesi più sviluppati invadono i paesi sottosviluppati per portare loro progresso e sviluppo. Certamente i ôprogetti di sviluppoö cinesi hanno portato dei cambiamenti in Tibet, ma quando parliamo di ôprogressoö dobbiamo sempre tenere presente cosa significa progresso, chi ne beneficia e chi, per esso, paga.

I vasti e costosi progetti volti alla costruzione di strade e dighe, hanno conseguenze negative sul fragile ecosistema tibetano e pochi effetti sulle vite della gente comune. Le strade sono molto utili all’esercito cinese e ai coloni cinesi che arrivano ogni giorno in Tibet attratti dagli incentivi del governo. Inoltre, facilitano lo sfruttamento delle risorse naturali del Tibet. Le strade esistono ma non ci sono sistemi di trasporto pubblico perché la popolazione locale possa beneficiarne.

La Commissione Internazionale dei Giuristi riferisce: ôI mezzi di sussistenza di molti Tibetani, che vivono in piccole comunità rurali, sono stati trascurati, in quanto beneficiano poco dei massicci investimenti cinesi. Questo rapporto dimostra che la povertà relativa dei tibetani, lo sfruttamento delle risorse tibetane per contribuire allo sviluppo della Cina, l’insediamento di un considerevole numero di cinesi nei nuovi centri urbani hanno conseguenze negative sulle comunità tibetaneö.

I rapporti Cina/Tibet hanno molte caratteristiche della dominazione coloniale, con lo sfruttamento delle risorse naturali della colonia a beneficio del paese colonizzatore.
Ci? crea stagnazione economica, promuove l’inefficienza e crea le condizioni di dipendenza che riducono di fatto gli sforzi di sviluppo a livello locale.
Dallo sfruttamento delle risorse naturali alle decisioni chiave in termini di politiche locali e regionali, i tibetani sono esclusi, ad ogni livello, dalla partecipazione allo sviluppo del loro paese e dalle decisioni sul futuro economico del Tibet.


La violazione dei diritti delle donne in Tibet


I diritti fondamentali delle donne tibetane continuano ad essere violati dal punto di vista politico, culturale, economico, sociale nonché da quello dell’integrità fisica.
Le donne tibetane, spesso monache, continuano ad essere arrestate arbitrariamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di opinione ed espressione e, in carcere, sono soggette a maltrattamenti e torture. Spesso sono anche costrette a subire contro la loro volontà la pratica della sterilizzazione forzata o pratiche di contraccezione o aborto forzati.

La Cina, nel 1980, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne.

La legislazione nazionale cinese nonché gli obblighi assunti a livello internazionale non sono comunque serviti a difendere i diritti delle donne tibetane in Tibet. In realtà il governo cinese prosegue nella sua premeditata e sistematica politica di discriminazione e violenza contro le donne tibetane.


LE DONNE DETENUTE
Le donne tibetane hanno sempre avuto un ruolo attivo nel sostegno e la difesa dei diritti umani e della libertà. Sin dall’occupazione del Tibet nel 1959, le donne e in particolare le monache sono state a capo di pacifiche dimostrazioni che chiedevano la fine della repressione cinese.

Il 26% dei prigionieri politici detenuti nelle prigioni cinesi in tutto il Tibet sono donne. Al dicembre 1999 si aveva notizia di 615 prigionieri politici di cui 162 donne. L’80% delle donne detenute sono monache.

Le condizioni delle donne in prigione sono di gran lunga al di sotto di quelle che possono essere definite condizioni umane di detenzione secondo gli standard internazionali. Alle donne non vengono forniti assorbenti igienici per le mestruazioni e la situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che non è consentito lavarsi per lunghi periodi. Sono inoltre sottoposte a lavori forzati, esercitazioni obbligatorie ed altre crudeli forme di tortura sia fisica che psichica.

Le donne tibetane, per nulla scoraggiate dalle brutali torture, hanno continuato ad inscenare proteste contro le autorità cinesi anche durante la detenzione. Il 1 maggio (Festa del Lavoro) ed il 4 maggio (Giornata della Gioventù) 1998, i prigionieri della prigione di Drapchi hanno inscenato una protesta al momento della cerimonia dell’alzabandiera. I dimostranti furono immediatamente circondati dalle forze della Polizia Popolare Armata e furono tutti picchiati senza fare distinzioni, comprese le monache che avevano partecipato alla protesta. La cerimonia venne interrotta e tutte le monache del 3? blocco, circa 100 in totale, subirono gravi ferite e molte sanguinavano. Le autorità rinchiusero in cella di isolamento 20 monache prese a caso, a tre di loro fu prolungata la condanna mentre altre rimasero in isolamento per sette mesi.

Ngawang Sangdrol, rilasciata nell’ottobre 2002, fu arrestata per la prima volta nel 1987, all’età di 10 anni e trattenuta per 15 giorni per aver partecipato ad una dimostrazione. In seguito fu nuovamente arrestata il 28 agosto 1990 all’età di 13 anni e trattenuta agli arresti per 9 mesi. Prima del suo rilascio, stava scontando una condanna che risaliva al 17 giungo 1992, giorno in cui fu arrestata per aver tentato di inscenare a Lhasa una protesta a favore dell’indipendenza. La sua condanna era stata successivamente prolungata tre volte: nel giugno 1993, nel giugno 1996 e nell’ottobre 1998 a seguito della protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. Ngawang Sangdrol era stata individuata e sottoposta a trattamenti particolarmente duri e spesso rinchiusa in isolamento. Le sue condizioni di salute sono estremamente fragili.


IL BRUTALE TRATTAMENTO DELLE DONNE
Il Tibet Information Network (TIN), un’ agenzia di informazione indipendente ha verificato il trattamento dei Tibetani nelle prigioni cinesi ed ha rilevato che ôIl tasso di mortalità dei tibetani durante la reclusione o, come conseguenza della detenzione, poco dopo il loro rilascio, è in aumento. I prigionieri politici di sesso femminile e in particolare le detenute nella prigione di Drapchi a Lhasa, sono quelle esposte al maggior rischio. Il tasso di mortalità è pari al 5% circa o di 1 a 20.ö

Choeying Kunsang, arrivata dal Tibet nell’aprile 2000, descrisse dettagliatamente la protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. La sua testimonianza è corredata da descrizioni molto vivide di percosse, violenze sessuali, periodi di isolamento anche di sette mesi, sessioni di ôallenamentoö ed episodi di torture che hanno condotto alla morte il prigioniero.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da hanabi »
yo no naka wa yume ka utsutsu ka utsutsu tomo yume tomo shirazu arite nakereba...

glaus

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« Risposta #14 il: 07 Agosto, 2007, 17:09:49 pm »
Per babo: non capisco da chi sarei dovuto essere strumentalizzato? (gratis, poi.....)
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da glaus »