Mario Tchou in una fredda mattinata di novembre percorreva la Torino-Milano col suo autista. Tutt’e due erano giovani e tutt’e due andavano incontro al loro fatidico destino. Di lì a poco, un incidente li avrebbe travolti, facendo dei loro corpi scempio.
ario aveva 37 anni e dirigeva il Laboratorio di Ricerche Elettroniche della Olivetti, a Borgolombardo, in prossimità di Milano. Correva l’anno 1961.
Figlio di un diplomatico, ex ambasciatore della Cina imperiale presso il Vaticano, intraprese gli studi in Italia, per laurearsi negli Stati Uniti al Polytechnic Brooklyn. All’età di 28 anni fu chiamato ad insegnare alla Columbia University di New York.
La sua conoscenza dei calcolatori elettronici(in quei tempi c’erano pochi specialisti in quel campo) lo fece appetibile agli occhi di Adriano Olivetti, imprenditore, il quale lo incontrò per un colloquio. Vuoi che Mario fosse nato a Roma, vuoi che fosse attratto dal progetto che il carismatico Adriano aveva in mente, accettò e tornò in Italia nel 1955.
Qui, in un’atmosfera pionieristica, con grande originalità convocò un gruppo di giovani(perchè «Le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria.») fisici, matematici, ingegneri.
Uno di questi giovani è Renato Betti, attuale professore ordinario di geometria al Politecnico di Milano:
«Ricordo il colloquio/selezione che mi fece, direi nel luglio del 1960, nella sede milanese dell’Olivetti (che allora era in via Clerici). Ricordo l’ambiente, la persona, ma non i particolari. Una stanza in penombra e la sua estrema gentilezza, la mia impressione che non gli interessasse affatto quello che avevo imparato e che sapevo, ma quello che potevo imparare a fare. Lo stupore di un colloquio così lungo, ma non pesante.
Ricordo qualche domanda: lei ha nel cavo della mano dieci sferette di acciaio, di quelle che si usano nei cuscinetti, ciascuna del diametro di un millimetro. Quanto pesano in tutto? Una valutazione senza fare conti. Credo di avere sbagliato clamorosamente –provate ora voi a rispondere d’istinto– ma, un attimo dopo la risposta, di avere impostato così velocemente il conto – volume della sfera, peso specifico eccetera, ecc.– da riuscire a correggere al volo la mia valutazione “spontanea”. E lui, l’orientale, sorrideva.
Di altre cose mi faceva discutere, piuttosto che imbarazzarmi con domande. Mi spiegò le classi di resti e mi chiese di fare qualche conto modulo n; mi spiegò il calcolo binario e mi chiese di rappresentare qualche numero. Non gli interessava proprio niente di quello che sapevo già. E di fatto, come scoprii in seguito, le persone che superavano la prova e con le quali ebbi contatto al Laboratorio erano tutte in qualche modo originali – direi speciali, se non ci fossi anch’io. Fra l’altro, non importava per niente che non avessero seguito un corso ufficiale di studio, oppure che l’avessero interrotto per qualche motivo.»
L’originalità di Mario, oltre alle sue capacità organizzative, lo risaltò agli occhi del fratello di Adriano Olivetti: Roberto. I due strinsero una profonda amicizia e idee vivaci che portarono a convincere Adriano a trasferire la sede Barbaricina vicino Pisa, dove furono sfornati l’ Elea 9001, l’ Elea 9002 e il più innovativo Elea 9003, costruito puntando sui transistor invece che sulle valvole, a Borgolombardo, periferia di Milano.
La sede del nuovo laboratorio avrebbe dovuto essere costruita sul progetto del grande Charles Edouard Jeanneret, alias Le Corbusier. Ma non fu mai costruito.
La fama del Laboratorio, arrivò all’apice quando vennero prodotti quaranta esemplari di Elea, acquistati successivamente da Monte dei Paschi, Cogne, Fiat. Alla presentazione del calcolatore a Milano, il 9 novembre, venne addirittura il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, quest’ultimo noto ai collezionisti filatelici per il francobollo raro che porta il suo nome: il Gronchi rosa.
A questa ascesa, corrispose, per controversie stroncanti, una ripida discesa per ovvie ragioni: per un progetto simile, ci volevano ingenti investimenti, cosa che un’azienda privata difficilmente poteva sostenere, senza l’aiuto statale, per lungo tempo.
Suonavano come parole profetiche quelle di Mario Tchou:«Attualmente possiamo considerarci allo stesso livello (dei concorrenti) dal punto di vista qualitativo. Gli altri però ricevono aiuti enormi dallo Stato. Gli Stati Uniti stanziano somme ingenti per le ricerche elettroniche, specialmente a scopi militari. Anche la Gran Bretagna spende milioni di sterline. Lo sforzo della Olivetti è molto notevole, ma gli altri hanno un futuro più sicuro del nostro, essendo aiutati dallo Stato.»
Infatti accedde l’inevitabile: nel 1960 muore Adriano Olivetti, seguito a un anno di distanza da Mario Tchou, in un misterioso incidente stradale. Persi i due punti di riferimento principali, la Divisione Elettronica della Olivetti, andò allo sbando, nonostante l’impegno di Roberto Olivetti nel cercar di salvar il salvabile.
Negli anni successivi, a causa di difficili situazioni finanziarie, inevitabilmente la Divisione Elettronica venne ceduta alla General Elettric, senza nessuna opposizione dello Stato italiano.
Fu una grande occasione persa dall’Italia per essere all’avanguardia nel campo dei calcolatori. E chissà come sarebbe andata la storia con i “se”. Forse la Silicon Valley si sarebbe chiamata Valle del Silicio? E new economy, nuova economia?
E ci immaginiamo Mario Tchou, uno dei pionieri e uno dei primi della seconda generazione che ci sorride da qualche parte dell’aldilà, con l’aria da sapiente cinese.
fonti: “Mistero del computer mai nato”, di Giuseppe Rao, L’Unità, 19/12/01.
http://matematica.uni-bocconi.it/betti/olivettipresentaz.htm
Qifeng