Un’intervista a Marco Wong sul Mainichi Shimbun dall’inviato romano Fujiwara Akio (con traduzione in italiano dal giapponese):
Titolo: Pregiudizi e minacce contro l’imprenditoria cinese “c’è tanta ignoranza!”
Il rappresentante dell’associazione dei cinesi di seconda generazione, Marco Wong (47 anni), scoppia a ridere affermando che si tratta del “pericolo giallo!” sentendo le parole del consigliere comunale di Roma Ugo Cassone “i cinesi ci stanno invadendo”.
Il nonno, proveniente dalla zona di Shanghai, venne a vivere nel nord dell’Italia negli anni ’50 come operaio in una pelletteria, poi vennero i suoi genitori di Marco Wong, e lui nacque a Bologna.
Spiega che negli anni ’70 la teoria del pericolo giallo derivava dalla paura verso il Giappone.
All’epoca per esempio, visto che c’era poca disponibilità di metalli, il Governo stampò dei piccoli assegni in sostituzione alle monete. L’opinione pubblica diceva che i Giapponesi fabbricavano le macchine che poi rivendevano usando proprio il metallo fuso dalle monete come materia prima.
C’erano parecchie di leggende metropolitane di questo genere.
Adesso in un momento di disoccupazione, dove l’industria tessile e dell’abbigliamento sono in crisi, tutte le colpe vengono scaricate alla Cina.
Per esempio, un Ministro disse: «Bisogna stare attenti quando si va al ristorante, perché i cinesi mangiano di tutto”, inoltre il primo ministro Berlusconi disse che“i cinesi mangiano i bambini».
Così si diffondono i pregiudizi dovuti alla bassa cultura e alla poca educazione di questo Paese.
Innanzitutto i media non dicono che le nostre tasse (dei cinesi) tengono in piedi il sistema previdenziale italiano.
Nell’edizione del 7 ottobre 2010 del settimanale di centrodestra “Panorama” usciva in copertina con una foto di una donna cinese intenta a fare linguacce e smorfie: si trattava di un numero speciale titolato “L’invasione cinese, ci hanno sfrattato”.
Nella rivista faceva vedere in quali città ci fossero i negozi cinesi che esponevano una bandiera cinese, per poi condannare questa specie di “invasione”. Dall’articolo si trae la conclusione che bisogna imparare dai cinesi in quanto dotati di un alto spirito imprenditoriale.
Spiegazione foto: il numero speciale del settimanale italiano di centro destra “Panorama” del 7 ottobre 2010 con in copertina una donna cinese che mostra la lingua è sopra il titolo: “L’invasione cinese: ci hanno sfrattato”
Nel totale dei 5.000.000 di immigrati regolari i Romeni sono il 21%, gli albanesi l’11%, i marocchini il 10%, i cinesi sono al quarto posto con solo il 4,4%.
Malgrado questo la gente si sente minacciata dal fatto che i cinesi non vogliano lavorare sotto padrone italiano ma puntano a costruire da soli le proprie imprese.
Nella rivista risulta che uno su sette dei cinesi in Italia è imprenditore, mentre tra gli italiani lo è uno su 44.
Tra gli immigrati cinesi esiste questa mentalità di voler diventare padrone anche se con un solo dipendente agli ordini.
Però vorrei che si parlasse di più anche di altre cose come, per esempio, del fatto che recentemente è aumentato il numero di imprese gestite dai residenti, di come più della metà dei cinesi di seconda generazione siano laureati.
C’è anche il fatto che una caratteristica degli italiani è di sognare “Un Paese, il padrone del castello”
Adesso si è rotto questo sogno e sembra che gli italiani non sappiano far altro che assistere impotenti.
Gli altri articoli di Akio Fujiwara
«Io non sono mai andato contro la legge, mi sono sempre comportato correttamente. Per questo mi fa rabbia»… In un bar di Roma, mentre discutevo sul tema dell’immigrazione con un ex funzionario delle Nazioni Unite, si è aggiunto alla conversazione Nicola Salerno, dirigente di un’impresa di costruzioni. «Non è una cosa solo di testa, se ascolti quello che ti dico, potrai capire la realtà!»
Nato in Australia, Nicola è figlio di immigrati italiani. Ventenne, ha cominciato a lavorare nel settore delle costruzioni in Africa, poi trentenne è venuto in Italia grazie ai capitali così raccolti. «Il punto è che gli italiani emigrati in Australia si sono inseriti nella società studiando l’inglese, rispettando le leggi, adottando un atteggiamento umile, mentre oggi qui a Roma girano troppi immigrati illegali e arroganti»
Spiegazione della foto: “La cosa peggiore è che sono gli italiani a sfruttare gli immigrati”dice Nicola Salerno
Per via del crollo dei prezzi provocato dalla concorrenza delle nuove società di costruzione dei romeni, negli ultimi dieci anni il suo lavoro si è dimezzato. «I miei impiegati da 22 sono scesi a 14, anche così rispetto a 10 anni fa i ricavi annuali sono alla metà, adesso in un anno lavoriamo per 350.000 euro (circa 39.000.000 di yen). È la metà di 10 anni fa! »
Prima comprava il terreno, poi lo rivendeva dopo averla edificata, «adesso per il fatto che non ho più risparmi, ormai in questo campo posso solo lavorare in subappalto». I suoi operai prendono 125 euro al giorno, non c’è partita con una società romena che paga i sottoposti a 30 euro al giorno.«Quelli lavorano in nero e agli impiegati non pagano la pensione, non rispettano i prezzi minimi. Se lo vado a dire in Comune nessuno interviene a controllare, anche se poi sorge qualche problema, quelli scappano via e tirano su un’altra società. Nel caso che si riesca ad arrivare in Tribunale, poi, ci vuole troppo tempo per il processo, alla fine il tutto va in prescrizione e quelli se la cavano senza neanche dover pagare una multa».
Riguardo al discorso dell’”Invasione” di Piazza Vittorio da parte dei commercianti cinesi che si concentrano lì, dice: «dalla mia esperienza, posso dire che generalmente i cinesi pagano tutte le tasse, a Roma non c’è un movimento contro di loro così forte». «Invece il vero problema è, senza dubbio, quello che dicevo prima cioè gli illegali, e coinvolge gli immigrati dell’Europa orientale. Nel loro Paese loro vanno in prigione anche se rubano un pollo, qui invece, qualunque cosa rubino sono subito liberi. Però, alla fine, i peggiori sono gli italiani. Gli italiani per guadagnare più soldi, accettano senza batter ciglio il lavoro illegale in quanto li fa risparmiare»
Per la gente che non rispetta la legge, l’Italia è un buon paese in quanto i controlli relativi alle tasse e alla concessione delle licenze sono deboli. «I romani sono poco seri e infatti qui si è sempre lavorato sul filo della legalità. Però gli immigrati hanno spezzato improvvisamente questo fragile equilibrio. Col passare degli anni la cosa va peggiorando»
【Roma, Fujiwara Akio】=continua
È fastidioso essere giudicati solo dall’esterno: «Però, forse perché si è sorpassato il limite, ora non provo più fastidio.» Ingy Mubiayi (38) è una scrittrice di romanzi dai temi che variano dai matrimoni misti alla psicologia delle minoranze. Ultimamente non si stupisce davanti al disprezzo e al pregiudizio della gente.
Nata da un papà dell’ex-Zaire (ora Congo) e da una mamma egiziana, è venuta a Roma all’età di 4 anni per via del lavoro diplomatico del padre, che poi è fuggito in Francia. Il punto di vista di lei rimasta con la madre è cambiata negli anni, da quella di figlia di un diplomatico a quella di una rifugiata per poi pasare a immigrata e infine a cittadina. Ora ha una figlia con un italiano.
Spiegazione della foto: “Il futuro dell’immigrazione? Io sono una di quelle abbastanza ottimiste” dice la romanziera Ingy Mubiayi= foto di Akio Fujiwara
«Io penso di aver accetato di essere italiana. Ho persino la cittadinanza. Durante gli anni dell’adolescenza tutti i giorni mi arrabbiavo. Anche da ventenne continuavo ad avere questo sentimento di fastidio, però adesso davanti all’ignoranza di certa gente provo un senso di ridicolo e ci rido sopra. Per mia madre invece è diverso. Forse è per via che è venuta qui quando era già grande, anche oggi ogni giorno prova rabbia.»
«Nella metà degli anni ‘80, tra i 2000 studenti della mia scuola media c’era una sola straniera, io. Anche nel quartiere eravamo solo 3 famiglie. Quello che attirava la gente erano i miei capelli e la mia pelle, erano gentile da star male, vedendola in termini positivi ero al centro della curiosità».
La città è cambiata completamente con la venuta degli immigrati dell’Europa orientale negli anni ’90.«In quel periodo provavo ogni giorno un senso di stanchezza. La gente aveva sempre una faccia nervosa. Si èsono comiciate a usare parole come invasione, noi siamo state insultate apertamente da giovani skin head. È successo anche che, in occasione in un incidente di macchina causato da uno straniero ecco che delle persone normali, senza alcuna autorità, hanno preso a chiedergli insistentemente “E il permesso di soggiorno?”»
In questi vent’anni la percentuale di immigrati sulla popolazione è salita dal 1% al 10%. Si è passati da un atteggiamento di curiosità, poi di ostilità, quindi di paura e infine di abitudine. Eppure gli italiani ancora non pensano di essere uguali a loro.
«C’è gente che ogni giorno va a fare le spese nei negozi gestiti da immigrati del Bangladesh e simpatizzano, poi a casa parlano di espellere gli immigrati. Anche nella mia libreria, quando con me c’è la mia suocera italiana, i clienti si rivolgono sempre a lei, poi quando sanno che sono io la proprietaria rimangono a bocca aperta. Oppure quando vedono che lavo il pavimento dicono a mia suocera cose tipo “Certo che lavora bene quella”. È difficile cambiare questa visione superficiale che li porta a pensare che gli stranieri facciano solo i lavori umili e dal giudicare dalle apparenze. Questo è inevitabile vista la poca tradizione nell’immigrazione di stranieri, però penso che le cose andranno sempre meglio perché c’è tanta gente buona»
【Roma, Akio Fujiwara】=continua
Un uomo che tutti pensavano fosse italiano, ma appena hanno capito che invece era straniero, divenne sospettato di omicidio. Attraverso le parole o il diario di una donna delle pulizie di Napoli, di un titolare di un negozio a Roma, di un professore universitario di Milano, di un rifugiato dall’Iran e di alcuni immigrati del Bangladesh, viene fuori l’immagine reale del protagonista algerino. Il romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”, uscito in Italia nel 2006, ha venduto 60 mila copie diventando un libro di successo, ne è stato tratto un film che ha ottenuto vari premi.
L’autore Lakhous Amara (40), di origine algerina, ha recentemente pubblicato il suo secondo romanzo “Divorzio all’islamica in via Marconi”, dove il narratore è un investigatore romano che si spaccia per un immigrato di origini arabe. Il tema comune dei due libri è la vacuità di definire un’identità attraverso un semplice foglio di carta.«L’identità è come una gabbia. Penso che bisogna rompere questa gabbia che definisce la cittadinanza, la religione, il linguaggio. Per esempio, mi piacerebbe che venisse un’epoca in cui il fatto che un autore giapponese di fede islamica scriva in tedesco possa essere una cosa che non provochi stupore. Alcuni lettori mi dicono: “La scrittura e le parole che usi sono da romano”. Per me è il complimento più bello. Perché vuol dire che ho rotto la gabbia». Ci sono queste parole attinenti alla ricerca di sé: «Non esiste un io definito e definitivo, si cambia sempre quando ci si apre al mondo. Io sono arabo, sono un islamico e sono italiano, però in tutto questo non c’è contraddizione».
Nel primo romanzo un romano dice questo:«Io non sono razzista con nessuno, non sopporto solo i napoletani». Un milanese: «Non c’è differenza tra gli immigrati e i meridionali». Alla fin fine, proprio perché in Italia c’è una forte tradizione locale, anche se non è sempre una cosa positiva, c’è comunque una storia di accettazione dei forestieri.«Per esempio, in Sicilia è ancora presente la cultura araba e limitandosi a vedere le persone da fuori si vede come le differenze con gli arabi siano minime.»
Quando è venuto in Italia 15 anni fa voleva godersi i film dei maestri italiani come Fellini nella loro lingua originale. «Ho preso la laurea e il dottorato, e sono diventato cittadino italiano. Anche se sono solo un esempio positivo, questo dimostra comunque che in questo Paese c’è la possibilità di riuscire a fare queste cose. » Lakhous pensa che in Italia sia naturale accettare chi viene da una cultura diversa, anche senza dover annullare ogni minima differenza.
【Roma Fujiwara Akio】=fine