Manca liquidità nel “Triveneto” del Dragone per i limiti imposti al prestito bancario. Gli imprenditori chiudono bottega e scappano
da Pechino
Imprenditori che fuggono senza pagare gli stipendi, decine di piccole aziende sull’orlo del fallimento. Sembra un paradosso, ma in Cina c’è un problema di liquidità. Succede nello Zhejiang, la regione a sud di Shanghai che è sinonimo di intraprendenza e da cui provengono quasi tutti i cinesi residenti in Italia. Il punto è che le restrizioni al credito imposte dal governo – sotto forma di innalzamento della riserva obbligatoria delle banche – che dovrebbero raffreddare l’inflazione e colpire soprattutto la speculazione edilizia, finiscono invece per stroncare proprio il motore dell’economia locale: le piccole e medie imprese (Pmi) manifatturiere. Così, i produttori ricorrono sempre più spesso ai prestiti da fonti non bancarie, con tassi d’interesse che vanno dal 20 per cento al 180 per cento.
Sono i cosiddetti “prestiti informali” che a Wenzhou, secondo stime della Banca Centrale, avrebbero quest’anno già raggiunto quota 110 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).
All’indebitamento si aggiunge la riduzione degli ordinativi che arrivano dall’estero, complice la crisi economica mondiale, e lo Zhejiang si scopre vulnerabile.
Secondo un rapporto di Barclays Capital, ripreso dal South China Morning Post, da gennaio i media locali hanno segnalato solo 19 fallimenti aziendali a Wenzhou, ma il numero potrebbe essere maggiore.
L’Oriental Morning Post, citando fonti delle autorità locali, parla della fuga di oltre duecento imprenditori che dovevano complessivamente circa 76 milioni di yuan (oltre 8,5 milioni di euro) a 15mila lavoratori. Sono cifre impressionanti se si considera che durante la crisi finanziaria globale del 2008, che sfiorò la Cina ma che ebbe comunque ricadute sull’export, furono “solo” 5 o 6mila i dipendenti rimasti con le tasche vuote perché il loro boss aveva preso l largo, sempre secondo fonti ufficiali.
In questi giorni fa scalpore il caso di Hu Fulin, presidente della più grande fabbrica d’occhiali cinesi, la Zhejiang Center Group, che il 21 settembre è scappato negli Stati Uniti lasciando 1,5 miliardi di yuan di debiti, tra banche e creditori privati. È poi ritornato in patria dopo che il governo ha promesso di contribuire alla ristrutturazione del debito.
Una ricerca del governo locale ha inoltre rivelato che un numero ancora maggiore di imprenditori sarebbero intenzionati a fuggire nei prossimi mesi, soprattutto in occasione del capodanno cinese e della festa di primavera, occasioni nelle quali si usa aggiungere bonus al salario dei dipendenti.
A indebitarsi non sono solo le imprese. Il China Securities Journal cita un rapporto della Banca centrale secondo il quale a Wenzhou, a luglio, circa l’89 per cento delle famiglie e il 60 per cento delle società erano in qualche modo coinvolte nel sistema bancario ombra, con tassi medi al 25 per cento annuo.
Per ora il fenomeno colpisce solo la zona di Wenzhou e dintorni, ma gli economisti temono un allargamento ad altre regioni della Cina: la Mongolia Interna e il Guangdong sono le prossime candidate.
Pechino è corsa ai ripari e, mentre il premier Wen Jiabao si è precipitato nello Zhejiang per far sentire la vicinanza delle autorità centrali (di solito lo fa in occasione di catastrofi), Il Consiglio di Stato ha già annunciato un pacchetto di misure che comprendono facilitazioni fiscali e accesso più facile al credito per le piccole imprese. Il governo ha anche affermato che si dimostrerà più tollerante se si registreranno basse percentuali nel pagamento dei debiti contratti dalle Pmi.
Yao Wei, capo economista per l’Asia della Societe Generale, ritiene che nel 2012 la crisi di liquidità delle Pmi, combinato con il generale rallentamento economico in patria e all’estero, potrebbe ridurre la crescita del Pil fino all’8,3 per cento, a fronte del 10,4 registrato l’anno scorso e del 9,5 del secondo trimestre di quest’anno.
Sono numeri che a orecchi europei suonano comunque entusiasmanti, ma in Cina fanno suonare qualche campanello d’allarme.
Manca liquidità nel “Triveneto” del Dragone per i limiti imposti al prestito bancario. Gli imprenditori chiudono bottega e scappano
da Pechino
Imprenditori che fuggono senza pagare gli stipendi, decine di piccole aziende sull’orlo del fallimento. Sembra un paradosso, ma in Cina c’è un problema di liquidità. Succede nello Zhejiang, la regione a sud di Shanghai che è sinonimo di intraprendenza e da cui provengono quasi tutti i cinesi residenti in Italia. Il punto è che le restrizioni al credito imposte dal governo – sotto forma di innalzamento della riserva obbligatoria delle banche – che dovrebbero raffreddare l’inflazione e colpire soprattutto la speculazione edilizia, finiscono invece per stroncare proprio il motore dell’economia locale: le piccole e medie imprese (Pmi) manifatturiere. Così, i produttori ricorrono sempre più spesso ai prestiti da fonti non bancarie, con tassi d’interesse che vanno dal 20 per cento al 180 per cento.
Sono i cosiddetti “prestiti informali” che a Wenzhou, secondo stime della Banca Centrale, avrebbero quest’anno già raggiunto quota 110 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).
All’indebitamento si aggiunge la riduzione degli ordinativi che arrivano dall’estero, complice la crisi economica mondiale, e lo Zhejiang si scopre vulnerabile.
Secondo un rapporto di Barclays Capital, ripreso dal South China Morning Post, da gennaio i media locali hanno segnalato solo 19 fallimenti aziendali a Wenzhou, ma il numero potrebbe essere maggiore.
L’Oriental Morning Post, citando fonti delle autorità locali, parla della fuga di oltre duecento imprenditori che dovevano complessivamente circa 76 milioni di yuan (oltre 8,5 milioni di euro) a 15mila lavoratori. Sono cifre impressionanti se si considera che durante la crisi finanziaria globale del 2008, che sfiorò la Cina ma che ebbe comunque ricadute sull’export, furono “solo” 5 o 6mila i dipendenti rimasti con le tasche vuote perché il loro boss aveva preso l largo, sempre secondo fonti ufficiali.
In questi giorni fa scalpore il caso di Hu Fulin, presidente della più grande fabbrica d’occhiali cinesi, la Zhejiang Center Group, che il 21 settembre è scappato negli Stati Uniti lasciando 1,5 miliardi di yuan di debiti, tra banche e creditori privati. È poi ritornato in patria dopo che il governo ha promesso di contribuire alla ristrutturazione del debito.
Una ricerca del governo locale ha inoltre rivelato che un numero ancora maggiore di imprenditori sarebbero intenzionati a fuggire nei prossimi mesi, soprattutto in occasione del capodanno cinese e della festa di primavera, occasioni nelle quali si usa aggiungere bonus al salario dei dipendenti.
A indebitarsi non sono solo le imprese. Il China Securities Journal cita un rapporto della Banca centrale secondo il quale a Wenzhou, a luglio, circa l’89 per cento delle famiglie e il 60 per cento delle società erano in qualche modo coinvolte nel sistema bancario ombra, con tassi medi al 25 per cento annuo.
Per ora il fenomeno colpisce solo la zona di Wenzhou e dintorni, ma gli economisti temono un allargamento ad altre regioni della Cina: la Mongolia Interna e il Guangdong sono le prossime candidate.
Pechino è corsa ai ripari e, mentre il premier Wen Jiabao si è precipitato nello Zhejiang per far sentire la vicinanza delle autorità centrali (di solito lo fa in occasione di catastrofi), Il Consiglio di Stato ha già annunciato un pacchetto di misure che comprendono facilitazioni fiscali e accesso più facile al credito per le piccole imprese. Il governo ha anche affermato che si dimostrerà più tollerante se si registreranno basse percentuali nel pagamento dei debiti contratti dalle Pmi.
Yao Wei, capo economista per l’Asia della Societe Generale, ritiene che nel 2012 la crisi di liquidità delle Pmi, combinato con il generale rallentamento economico in patria e all’estero, potrebbe ridurre la crescita del Pil fino all’8,3 per cento, a fronte del 10,4 registrato l’anno scorso e del 9,5 del secondo trimestre di quest’anno.
Sono numeri che a orecchi europei suonano comunque entusiasmanti, ma in Cina fanno suonare qualche campanello d’allarme.