Caro Schiavi,
in relazione alla lettera di Fausto Romano e alla sua risposta pubblicata sul Corriere Milano l’undici aprile, ci rammarica constatare che, dopo tanti anni di apprezzabile assenza dalle pagine di questo quotidiano di generalizzazioni gratuite relative alla Chinatown milanese, in poche righe si sono rispolverati luoghi comuni che pensavamo fossero superati dal successo evidente dell’integrazione sociale e culturale della minoranza cinese in questa città.
Negli ultimi quindici anni, la vivacità e la qualità degli esercizi commerciali gestiti da cinesi nel quartiere lo hanno reso una delle attrazioni turistiche della città e una delle destinazioni più gradite per lo svago dei milanesi. È il principale polo dello street food cinese d’Europa, conosciuto e apprezzato non solo dai locali, ma anche da tanti lombardi e italiani di altre regioni che visitano la città.
Fa impressione il ritorno su queste pagine di stereotipi (“funerali cinesi mai visti”, la “zona franca” dell’illegalità, ecc.), che riportano al linguaggio della giunta Moratti-De Corato di quindici anni fa. A maggior ragione se a innescarlo non sono fatti di cronaca o indagini approfondite, ma l’osservazione soggettiva di un singolo lettore.
Oggi a Milano i cinesi residenti sono circa 35.000, la terza popolazione straniera in città dopo egiziani (38.211) e filippini (37.540). Dal 2003 al 2021, ne sono deceduti circa 13 l’anno, 257 in totale, una quarantina a fine 2021. Quell’anno il tasso di mortalità dei residenti cinesi in città era pari all’1,2 per mille, ovvero circa sei volte quello dei filippini: dato incompatibile con la leggenda dei “cinesi che non muoiono mai” (Elaborazioni su dati SISI dell’Ufficio Statistica del Comune di Milano, http://sisi.comune.milano.it/).
Tanto più che i funerali i cinesi a Milano li fanno, eccome: esiste un bellissimo reportage fotografico del compianto Armando Rotoletti, esposto nel 2017 nella mostra che il Comune di Milano dedicò ai cinesi meneghini (Chinamen. Un secolo di Cinesi a Milano, tutto il materiale è visionabile online sul sito www.chinamen.it), che documenta uno dei funerali tenutisi nel quartiere a inizio anni Novanta, solenne e partecipatissimo, con il corteo funebre addobbato di fiori di carta bianchi, come vuole la tradizione, ma con la messa presso la Santissima Trinità, nel cuore di Chinatown.
Chi vive nel quartiere di funerali così ne ha visti parecchi, dato che la prima tomba di un cinese sepolto al Cimitero Monumentale risale al 1944. Al Monumentale, a Musocco e a Lambrate vi riposano a centinaia. Per una popolazione che ha un estremo rispetto per i propri anziani e per i propri antenati, è inutilmente offensivo questo luogo comune, lui sì così duro a morire, che proprio i giornalisti dovrebbero impegnarsi a non perpetuare.
Parliamo di una delle minoranze più attive ed efficaci nell’organizzazione di iniziative benefiche e caritatevoli, tanto che nel 2021 una delle principali associazioni di imprenditori sinoitaliani, UNIIC, è stata insignita dell’Ambrogino d’oro.
Milano ha imparato a rispettare ed amare i “suoi” cinesi, che hanno contribuito e continuano a contribuire alla storia di questa città, dove gli avi degli attuali residenti cinesi si sono insediati dalla metà degli anni Venti del Novecento. Il Capodanno cinese, accompagnato negli anni pre- e post pandemia da una miriade di iniziative pubbliche partecipatissime dalla popolazione cittadina, è diventato una ricorrenza festeggiata da tutti i milanesi.
Nell’anno accademico 2020/21, ben 50.875 giovani cinesi frequentavano le università italiane, buona parte dei quali è nata e cresciuta qui: la quarta popolazione studentesca straniera e una delle più presenti anche negli atenei della metropoli lombarda.
Il numero di giuristi, medici, ingegneri, architetti, designer, esperti di economia e di marketing, cinesi in città è in continuo aumento e molti degli studenti giunti dalla Cina scelgono di fermarsi a Milano per disegnarvi la propria carriera futura.
Dal 2003 al 2021, sono 2.160 i cinesi che hanno acquisito la cittadinanza italiana, rinunciando a quella cinese, con un incremento medio del 14% annuo e un picco di nuove acquisizioni nel 2016 (311).
A differenza di quanto accade per molte minoranze neoitaliane, solo in minima parte (meno del 3%) si tratta di acquisizioni tramite matrimonio con cittadini italiani. In stragrande maggioranza sono giovani, nati o cresciuti qui, che scelgono di diventare italiani.
Dal 2015, peraltro, i matrimoni misti tra cinesi e italiani o altri stranieri superano costantemente quelli tra soli cinesi.
Quegli stereotipi appartengono a una stagione, quella della giunta Moratti, che fu capace di innescare l’unica “rivolta” mai rilevatasi negli ultimi cento anni in un quartiere cinese d’Europa.
Tuttavia, quella stagione inaugurò anche il progetto della ZTL, con la pedonalizzazione del quartiere e un’interazione sempre più stretta, schietta e in ultimo feconda e propositiva tra l’associazionismo tradizionale del quartiere – quello dei residenti, rappresentata da Vivisarpi, come pure quello dei negozianti – e l’associazionismo della comunità cinese.
Tra commercianti, residenti e istituzioni c’è oggi un dialogo e una collaborazione costante.
Dal 2007 non solo è cambiato il mondo – e con esso anche la Chinatown milanese – ma nel caso specifico di Milano possiamo dunque dire con sicurezza che è cambiato in meglio: lo dimostrano dati oggettivi, come la reputazione che questo quartiere ha a Milano, dove è oggi una delle zone più ambite tanto per i residenti (con prezzi al metro quadro degli immobili da capogiro), quanto per gli esercenti e per i suoi sempre più numerosi visitatori.
Oggi il commercio al piccolo ingrosso che fu al centro delle principali proteste dei residenti e dei contenziosi con il Comune non esiste quasi più, mentre via Paolo Sarpi è una delle più belle vie della città.
In questo quartiere l’esperienza di consumare senza ottenere scontrini è ormai assai rara, o quantomeno in linea con quanto avviene in qualsiasi altro quartiere della città. Non proprio una “zona a statuto speciale”!
L’impiego di lavoratori irregolari in un quartiere ormai interamente dedito ad attività commerciali con vetrina su strada è impossibile e di fatto non esiste più da oltre un decennio. Le attività in questione, inoltre, oggi appartengono principalmente alla categoria della ristorazione, sulla quale i controlli sono assidui e in cui l’innalzamento della qualità, merito anche del ricambio generazionale alla guida dei locali, ha ottenuto premi e riconoscimenti gastronomici importanti (guida Michelin, Gambero Rosso, Slow Food, ecc.).
Sul piano dell’evasione fiscale, siamo persuasi che nella Chinatown milanese ci siano commercianti più onesti ed altri meno onesti, come avviene nel resto di Milano e come nel resto d’Italia (quante volte sentiamo gestori italiani dirci “scusa il POS mi si è rotto mezz’ora fa”?).
Da un giornale come il Corriere ci aspettiamo che non si presti a queste generalizzazioni gratuite.
Stephane Hu, presidente di UNIIC
Francesco Wu, presidente onorario di UNIIC
Erik Mu, presidente di Associna
Dialogo-辩 biàn
Condivisa da Pier Franco Lionetto, presidente dell’Associazione Vivisarpi
Lettera originale sul Corriere della Sera:
La replica della comunità
Leggende su Chinatown
Sono Angelo Ou, figlio del primo flusso migratorio cinese in Italia e memoria storica della Chinatown milanese, quando ancora era localizzata nelle sole vie adiacenti alla Via Canonica, che fu il primo insediamento cino-Italiano. Non mi stupisce lo scritto dell’interlocutore, se non per il fatto che nonostante le criticità espresse reitera la sua presenza, gli acquisti ed i consumi nella Chinatown milanese… Mi stupisce invece in modo del tutto incomprensibile la sua misconoscenza delle realtà del quartiere da lei citato. Davvero credo che lei viva su un altro pianeta, oppure sia preso da una sorta di pseudo-razzismo ormai fuori moda, soprattutto quando usa definizioni come «città a statuto speciale», «enclave dover persino i morti sono una leggenda»….
Sono comunque a disposizione per aggiornarla sulla storia della città e, se crede, prendere un caffè assieme in qualsivoglia locale delle Chinatown, dove lo scontrino, prometto, sarà comunque a mio carico…
Angelo Ou
Ben venga il caffè, doppio e in tazza grande. L’ascolterò volentieri, perché il quartiere cinese fa intimamente parte di Milano e non si giudica solo per uno scontrino non dato.
Il lettore però cita un malcostume diffuso, e il mio richiamo è stato a guardare oltre il caso di Chinatown, citando quei vizi italiani che Prezzolini riassumeva nel Paese «dei furbi e dei fessi». L’ironia sui funerali cinesi è stata a lungo leggenda in via Paolo Sarpi e Canonica, e quanto all’enclave, c’è la cronaca dell’aprile 2007 a ricordarlo: una rivolta del quartiere che aveva privatizzato strade e marciapiedi con il commercio all’ingrosso e non accettava i controlli della giunta Moratti.
Giangiacomo Schiavi
NOI
CITTADINI
Scontrini a Chinatown/1
Quartiere modello
Da amante e «mangione» del cibo cinese ho invidiato l’appetito del signor Romano che è riuscito a spendere go euro in tre persone a Chinatown. lo quasi quotidianamente e da anni a Chinatown, mangiando nei ristoranti, prendendo caffè, cambiando le cover del cellulare, non mi è mai capitato di non ricevere lo scontrino. Perfino i ristoratori e i baristi ormai amici, vista la lunga frequentazione, mi hanno sempre dato lo scontrino. Cosa che non mi succede in altre parte di Milano e d’Italia. Condivido tuttavia il suo richiamo a pagare le tasse, cosa che in famiglia mi è stata insegnata come primo dovere civico, e confido che da questa mia (non episodica)
esperienza si può dire che Chinatown è un modello positivo per la città e l’Italia.
Francesco Brugnatelli
https://www.instagram.com/p/CrgSLmeIJpr/
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