Il mio nome era Hu Guoning (ma puoi chiamarmi Andrea)

Tutto il mondo è paese, me lo dici anche te.
Tianxìa shì dào chù dou yìyàng.
Tutto il mondo è paese, appunto.

Mi guardi, Andrea, coi tuoi lunghi occhi a mandorla e la pelle giallastra offesa dall’acne. Andrea, mi guardi e mi parli, un po’ di te e del tuo giovane mondo dei ventisette anni ancora da compiere, un mondo breve sul tuo passaporto, ma che si allunga e si addensa e si plasma immenso, in più di un’ora che mi tieni su questa sedia, in uno dei tanti capannoni del Macrolotto Uno, a raccontare di te e del tuo pellegrinaggio dalla Cina all’Italia, e dire Italia è aprire un mondo, un picaresco torrente di vicende.

Ti ho chiesto di parlarmi di te per poter far conoscere chi sono i cinesi che stanno a Prato, questa colonia silenziosa e scomoda, sconosciuta e scostante; ti ho chiesto di aprirti con me, ci siamo visti una volta chissà dove, davvero non ricordo, in mente ho solo il sudore freddo mentre ti parlavo al telefono e temevo che tu non mi capissi, e invece eccoti qui, mi hai spiegato come arrivare al tuo prefabbricato di confezioni pronto moda, mi hai accolto con tua moglie e il tuo bambino – il secondo – in arrivo; mi hai sorriso colmando l’inseparabile distanza tra due mondi che forse nemmeno l’anagrafe saprebbe descrivere: i miei ventiquattro anni di borghese studentessa italiana, i tuoi ventisei anni di contadino azzeccagarbugli cinese del sud.

Sei nato nel millenovecentoottantuno, quando i miei genitori si sposavano nel giorno della Liberazione dal nazifascismo e da Roma si trasferivano a vivere a Prato, migranti anche loro, a suo modo. A quattordici anni hai iniziato a lavorare, vendendo accendini al mercato in qualche città del nord di cui non ho capito bene il nome; a diciassette anni un altro lavoro, magazziniere a Torino – stavolta il nome non mi sfugge – per un alimentare di cinesi.

Tu dici lavoro, e per te vuol dire la fatica e il sudore e mi parli di come è duro stare in piedi a scaricare camion dalle nove di mattina alle sette di sera e riposare solo il mercoledì pomeriggio e la domenica a volte, e poi non riconoscere quando è Natale o Capodanno; tu dici lavoro ma mi sa che non li conosci mica i primi Articoli del Titolo III dei Principi fondamentali della Costituzione italiana, quelli che a chi lavora, nel sudore e nella fatica, dice di stare a casa in malattia, di godersi i giorni di ferie per andare al mare anche se poi quando torni indietro resti imbottigliato nelle code sull’A11; quelli che “non si vive per lavorare, ma si lavora per vivere”.

Tu hai vissuto per lavorare, io lo capisco dall’orgoglio con cui rivendichi i sacrifici che hai fatti, e tra le righe punti il dito contro di me che ho quasi la tua età e certo ho avuto vita ben più facile. Parli della tua famiglia con tanti fratelli e sorelle, tutti a mano a mano arrivati in Italia dalla Cina grazie a tuo padre che è riuscito, nel millenovecentoottantanove – intanto a Berlino cadeva il Muro, e l’Europa tornava ad essere attraversata dai venti dell’Est – a portarvi tutti qua. Tuo padre che era emigrato a Parigi, a lavorare come chef in un ristorante cinese; poi lo chef gli era venuta voglia di farlo in proprio, e si era trasferito in Italia, al nord.

È lì che aveva investito i suoi averi – ma quali? forse ho perso un passaggio, scusa, credevo che tu venissi dalle campagne dello Zhejiang senza un soldo – e ha aperto un ristorante: lui continuava a fare lo chef, magari gli piaceva pensare a se stesso con quel buffo nome straniero che suona con un accento così diverso dal vostro aspro pigolìo cinese – scèf, sì, gli piace proprio tanto, e allora a voi figli vi aveva messo a fare i camerieri, a pulire, a star dietro a tutto il resto, insomma. Ma le cose andarono proprio male. Lo vedo dai tuoi grandi occhi a forma di piccola mandorla che si vanno bagnando di lacrime al solo ricordo, e – orgoglioso! – vorresti che io non me ne accorgessi. Il ristorante del tuo papà fallisce, e dovete ripagare una valanga di debiti.

Mi dici cifre che a stento riesco a scrivere, mi chiedo se tu esageri o se sono io che non capisco come certe cose possano accadere, come ci si possa rialzare dopo essersi scavati un buco nelle mani che va riempito con cento-duecento milioni di lire, e siamo ancora nel millenovecentonovantacinque, quando io ho finito la prima media con ottimo in tutte le materie tranne che in educazione fisica e tu – e chiudiamo uno spicchio di circonferenza – hai quattordici anni, ed eccoti a girovagare con i tuoi accendini nel mercato di quella città che prima non ho capito, mentre tua madre ha un banco da ambulante, e i tuoi fratelli sono altrove, tutti a lavorare, ma divisi; tutti che portate il vostro piccolo contributo all’inclemente causa del debito di famiglia -la famiglia! anche per voi è sacra, e lo vedo bene.

Siete venuti per diventare liberi dalla povertà del vostro paese, e finite ad assaggiare “come sa di sale lo pane altrui”, com’è duro lavorare per gli altri. Da qui nasce la voglia infinita di rivalsa che senti dentro, ancora adesso. Tuo fratello Paolo nel millenovecentonovantanove – mentre tutti aspettavano con ansia apocalittica il millennium bug – a Modena diventa socio di un pronto moda; poi nel duemila, forse passata la paura della fine del mondo, forse fatti un po’ di soldi, decide di mettersi da solo, chiama te da Torino che ancora facevi lo scaricatore di camion e vi trasferite a Reggio Emilia, dove aprite il vostro, di pronto moda.

E tu allora i camion cominci a guidarli, ci sali su e li porti fino qui – è questa la prima volta che ci arrivi, a Prato: ci vieni a comperare i tessuti, li carichi e poi li riporti indietro, su fino alla fabbrica a Reggio dove tuo fratello li confeziona e li rivende poi a Bologna. Un triangolo un po’ faticoso, e allora nel duemiladue venite direttamente dal produttore della materia prima, qui a Prato, in via del Ferro, in un capannone di mille metri quadrati in affitto da italiani, così come italiani ci tieni a dire che erano i tessuti e i macchinari che usavate; la manodopera no, quella era cinese. Si lavorava in casa. Oggi hai quattro o cinque magazzini, sparsi tra via Traversa Pistoiese e via Galcianese e via Paronese e ogni mese di affitto paghi trenta-quarantamila euro, che diventano sessantamila se ci metti anche l’affitto dei macchinari, la corrente, il cibo – cifre pazzesche, e vorrei saperle leggere, e invece tutto quello che so fare è saperle raccontare.

Sei agile, Andrea, svelto e sveglio come tutti i tuoi padri e i tuoi nonni sono stati, con le loro bocche grandi che sorridono sdentate e le loro camicie lise e i piedi scalzi; somigli a tutti i tuoi diecimila fratelli cinesi che sono arrivati qui da parti diverse, e la tua storia potrebbe essere la loro, lo dici anche tu che tutte le vostre storie sono simili.

A te piacciono i soldi, non ti piaceva studiare – tu dici studiare, ma hai mai potuto studiare davvero? – ti piace la vita comoda per te la tua famiglia tua mamma tuo papà, e ora tua moglie i tuoi figli; ti piacciono le macchine grandi, ti piace un po’ ostentare la fortuna che sei riuscito a fare. Ti guardi intorno con l’occhio lungo, la forma a mandorla è fatta apposta: capisci quali sono le tendenze in atto e in divenire nella società, da bravo imprenditore quale sei diventato nei tuoi ventisette anni che sembrano centosette – parlo in termini di mondo visto e vissuto, non certo di prestanza fisica, tua moglie e la sua grossa pancia in attesa ne sanno qualcosa – investi: non solo nel pronto moda, se pure adesso è il tuo business maggiore, ma anche in altri campi.

È tua l’idea geniale del ristorante giapponese in via Viareggio, il giapponese è tanto di moda oggi, e se tu i cuochi giapponesi non ce li hai qual è il problema? Lo sai bene come funziona un ristorante, tuo padre te lo ha insegnato sulla tua propria pelle, e ora tu stesso lo insegni ai cinesi che sono venuti a lavorare per te, coi vostri occhi mobili avete voglia di imparate tutto bene e in fretta, ed ecco Nagoya, il ristorante giapponese gestito dai cinesi: e non è intraprendenza questa?

Sei furbo, Andrea, io lo vedo da ciò che dici e da ciò che taci. Gli italiani ti piacciono, non hai pregiudizi tu, come dappertutto ci sono italiani buoni e italiani cattivi: ti piace Berlusconi, e mi dici lui sì che li sa capire gli imprenditori. Adesso chissà, sarai contento che è tornato al governo.

Ti manca tanto la tua Cina, sei uno affezionato alle sue radici e ai suoi ricordi, ci torni due volte all’anno (anche per curare degli affari commerciali, devo ammettere, però è meno romantico da dire, a questo punto). La Cina è un paese bellissimo, mi racconti rapito, con grattaceli che in Italia non li immagini neanche, grattaceli alti centouno piani – li stanno costruendo a Shanghai, sì lo so, – e già ce ne sono di ottanta piani; la Cina ha un’economia spaventosa, finche non lo vai a vedere non lo puoi immaginare, il mercato della Cina, quand’è che ci fai un viaggio? mi chiedi.

Però ora stare a Prato ti piace – sei di mente aperta, la tua vita ti ha forgiato – forse perché qui hai trovato uno spirito che è come il vostro, imprenditoriale, intraprendente. Forse, oggi si è solo un po’ assopito, forse serve che siate voi a risvegliarlo nella gente di Prato – voi, i cinesi che sputano per terra e cucinano i gatti e che costruiscono capannoni e seminano ditte. Chissà.

Suona come una sfida, vorrebbe potersi rivelare come una collaborazione. Tu ci lavori, con gli italiani, mi dici, in diverse società; hai molti amici, tra gli italiani, anche la tua mentalità, lo sottolinei, sta diventando italiana, certo più italiana di quella di tuo padre e tua madre; se conosci la lingua non è difficile fare amicizia, quando c’erano pochi cinesi la gente li guardava male, c’era il razzismo, si sa, tutto il mondo è paese.

Andrea, Andrea, che hai lasciato il tuo nome per forgiare il tuo posto in un nuovo paese; Andrea, lo so io e lo sai tu che ci sono cose di cui tu non hai parlato e che io non ho osato chiedere – l’ospite è sacro, ma non si sa mai: quanto e in quali condizioni lavorano i tuoi operai? E la parola legalità, come si declina in cinese?

Dici che i soldi che guadagnate li spendete a Prato, e fare girare l’economia, che il Macrolotto Due non lo avrebbero costruito se voi cinesi non aveste riempito l’Uno; e io ci credo, ma ancora mi chiedo: come pensi che oggi tu tua moglie e i tuoi amici e le loro mogli, e domani i tuoi figli e i loro figli, potrete integrarvi in pieno nella società e nell’economia della città?

Per te è facile sorridere e dire che gli italiani vogliono la vita facile, senza fatica, e che la notte dormono e sognano e non lavorano, come fate spesso voi. Per te è facile, non hai nulla da perdere, e continui a dire: i cinesi a Prato fanno crescere l’attività di Prato, e insieme anche la voglia di fare, la sana competizione che sola rende possibile il libero mercato. E io ti vorrei dire: va bene competere, però si gioca ad armi pari, questo lo dovresti sapere eh, forse è la sola cosa che ancora devi mettere bene a fuoco, ma non importa, sei sveglio e attento, presto imparerai a capirlo, a comprenderlo, ad apprezzarlo. Sono sicura che gli amici italiani che lavorano con te sapranno insegnartelo. Le Olimpiadi nella tua Cina serviranno anche a questo, partiamo tutti dal via, il vantaggio non è concesso a nessuno.

Tutto il mondo è paese, per noi esseri umani della società globalizzata sparata nel terzo millennio. Vorrei dirti, mentre ci salutiamo che fuori è ormai buio e io sono in ritardo come sempre però mi è piaciuto tanto stare ad ascoltarti tutto questo tempo; vorrei dirti: impariamo ad incontrarci, a conoscerci, come abbiamo fatto io e te stasera, Andrea. Abbattiamo l’ignoranza che rende diffidenti, guardiamoci negli occhi, noi dentro i vostri occhi a mandorla amara e voi dentro i nostri un po’ stanchi. Tutto il mondo è un paese un po’ grande, per avere la presunzione di viverci da soli.

Lucia Pecorario
Posted by on 22 Giugno 2008. Filed under Racconti. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. You can leave a response or trackback to this entry

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