Lo Straniero di novembre è uscito un articolo di Andrea Rampini della Agenzia Codici con qualche racconto e qualche pensiero sul progetto Oltre Chinatown, a cui abbiamo partecipato anche noi di Associna nell’ambito dei Fondi FEI/2011
Leggi il testo completo in PDF: AR-Giovani_Acrobati_Oltre_Chinatown_-_Andrea_Rampini
Autore: Andrea Rampini
Titolo originale: Giovani acrobati, oltre Chinatown
Anno di pubblicazione: Novembre 2013
Citazione bibliografica: Rampini A., Giovani acrobati, oltre Chinatown, in «Lo Straniero» n. 161, Roma 2013.
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Giovani acrobati, oltre Chinatown
Andrea Rampini – Codici | Agenzia di Ricerca Sociale
andrea.rampini[at]codiciricerche[.]it
Ricordo perfettamente quel giorno. I nonni volevano accompagnarmi, sentivano già la mia mancanza. Siamo partiti insieme e siamo andati all’aeroporto, solo che quando siamo arrivati lì dopo tutto il viaggio ci siamo resi conto che avevamo sbagliato data. Cioè, eravamo così agitati da non accorgerci che il volo era il giorno dopo! Allora alla fine sono io che li ho riaccompagnati a casa al paese, poi sono tornata all’aeroporto e me ne sono andata da sola. Tutti che piangevano e abbracciavano genitori e parenti, e io lì da sola. Non volevo piangere perché non c’era nessuno con cui farlo, e allora sono rimasta lì zitta zitta, ho lasciato la Cina in silenzio.
Mei ha 20 anni ed è in Italia da quando ne aveva 17. È nata e cresciuta in Cina, nella provincia nordoccidentale del Gansu, dove ha vissuto con i nonni da quando i genitori si sono trasferiti in Italia. Dopo il diploma delle superiori li ha raggiunti, e oggi a Milano lavora in un bar e frequenta l’università. Racconta la sua storia a Yu, che ha un anno meno di lei ed è nata in una provincia del sud-est, come la maggioranza dei cinesi d’Italia. È arrivata alla fine delle scuole elementari e ora ha smesso di studiare, perché deve lavorare a tempo pieno nel bar di suo zio per aiutare la famiglia. L’occasione di questa conversazione è legata a un laboratorio promosso nel quadro del progetto Oltre Chinatown1, che ha coinvolto 18 ragazze e ragazzi tra i 16 e i 20 anni, nati in Cina e ricongiuntisi da adolescenti ai genitori emigrati in Italia. Con il supporto di ricercatori, mediatori e artisti, il percorso si è concentrato proprio sul tema del ricongiungimento familiare e ha previsto momenti di confronto interno, la raccolta di storie di altri coetanei con esperienze simili e la realizzazione di un cortometraggio. Un dispositivo di partecipazione che si è sviluppato in nove mesi e che ora stimola riflessioni sia sui fenomeni sociali intercettati sia sui metodi di lavoro sperimentati.
Le testimonianze dei partecipanti e quelle da loro raccolte con più di 25 interviste ricostruiscono una panoramica sul ricongiungimento famigliare tra Cina e Italia ricca e diversificata. Il punto di partenza di molti racconti è collocato in luoghi che guardati da qui assumono tratti idealizzati, quasi romanzati: la Cina delle cittadine e delle campagne del sud-est, le città del nord e dell’ovest, le case dei nonni o degli zii, una routine quotidiana fatta di scuola e famiglia, amici e divertimento. Le foto ricordo sono contemplate con malinconia e richiamano una sensazione di normalità oggi inimmaginabile. Vista dalla Cina l’Italia ha contorni indefiniti. È uno dei Paesi dove fanno carriera i cinesi d’oltremare, è il posto dove si sono spostati mamma o papà in cerca di fortuna, è il posto delle città d’arte e della moda, del calcio e dello shopping. Per qualcuno una meta ambita, per altri proprio per nulla. A un certo punto in ogni narrazione arriva il giorno della svolta, quel punto di non ritorno che i giovani in migrazione hanno impresso nella mente in ogni minimo dettaglio. Una procedura burocratica che si sblocca, qualche telefonata dall’Italia e una rapida negoziazione. Subito ci sono da fare i bagagli, in qualche settimana o addirittura in poche ore. Bisogna salutare i parenti, fare gli ultimi spuntini con gli amici, le ultime serate di karaoke e le ultime fotografie pre-partenza, riempiendo l’album delle dediche e dandosi appuntamento per il capodanno o per l’estate. Il momento della partenza assume significati differenti a seconda della prospettiva e del momento in cui lo si guarda: per qualcuno una tappa necessaria del progetto costruito insieme alla famiglia, per qualcuno il grande tradimento subito dai genitori, per altri ancora l’inizio di un’avventura entusiasmante in un universo ricco di opportunità. L’atterraggio fa già parte di una nuova vita. All’aeroporto si presentano genitori, fratelli o cugini, ma la sensazione ricorrente è quella dell’estraneità, dell’imbarazzo legato al ritrovare qualcuno che ormai è divenuto poco più di uno sconosciuto, della stranezza nel chiamarlo per nome, o nel chiamarlo addirittura mamma o papà. Poi ci sono i primi flash di Italia: l’aria che sembra più pulita e i paesaggi così diversi, con gli edifici così bassi e le case così vecchie; il sapore del primo gelato; l’immagine buffa del primo tram; tante, troppe parole incomprensibili. Non sapere nulla di italiano è una condanna, significa non potersi muovere nelle città e non potere parlare con nessuno, essere inseriti in classi di ragazzi italiani molto più piccoli e immaturi, e in ogni caso non riuscire a parlare con loro. Il tempo passa lento e ogni giorno aumenta la sensazione di solitudine. Si spendono tutti i soldi possibili per chiamare gli amici e i compagni di classe rimasti in Cina, per dire quanto mancano e come è strana la vita qua. Eccitante, bellissima, avventurosa? Si si, però proprio strana, difficile spiegare. Le chat e i social network restano gli strumenti per mantenersi aggrappati al capitolo precedente della propria vita, ma più passa il tempo più si comincia a sentirsi estranei anche rispetto a tutto quello che sta accadendo a casa. Difficile capire come ci si sente, impossibile dirlo a qualcuno. Sono lontani i genitori, che hanno fatto vite diverse, continuano a faticare e dicono solo di farlo per te. Sono lontani i cinesi nati qui, perché non sanno niente di Cina e sono gialli fuori e bianchi dentro come banane. Gli italiani e tutti gli altri nemmeno si vedono.
Nel tempo le cose cambiano, ma le variabili in gioco sono molte. La prima è sicuramente la competenza linguistica. Chi apprende rapidamente l’italiano può affacciarsi a opportunità e mondi nuovi, mentre chi non ce la fa finisce per vivere in microcosmi paralleli, più o meno graditi, sempre relativamente limitati. Un’altra variabile è legata al percorso di studio e alle sfide di inserimento nel sistema scolastico italiano. In molti casi non si arriva in tempo per l’inizio dell’anno, non si hanno i requisiti linguistici per essere inseriti nella classe adeguata alla propria età, non si hanno gli strumenti per districarsi tra i tanti diversi tipi di scuola. L’eventualità del fallimento è difficile da sopportare e può portare a una rinuncia definitiva, mentre laddove si è accolti e accompagnati la classe e la scuola possono essere i primi significativi spazi di incontro, di scoperta, forse di integrazione. In terzo luogo ci sono le variabili legate al lavoro, con percorsi che possono essere molto diversi tra chi comincia a lavorare nell’impresa di famiglia e chi invece avvia una carriera autonoma con persone nuove. Poi c’è il tempo libero e il rapporto con la famiglia, le nuove e le vecchie amicizie, gli amori e le relazioni di coppia. E c’è il tempo, che trasforma tutto e cura qualche ferita. Alla fine per qualcuno l’esperienza di ricongiungimento e migrazione si rivelerà arricchente, trasformativa, rivoluzionaria. Per altri sarà vissuta all’insegna della perdita e del desiderio di ritornare in Cina. Per altri ancora si protrarrà una sensazione di sospensione tra più mondi, di ricerca irrisolta dei luoghi in cui immaginarsi e sentirsi a casa.
Tutti incontriamo delle cose spiacevoli nella vita, ma quando vivi queste cose qua non hai voglia di raccontarle in giro, preferisci sopportarle da solo in silenzio. Perché tanto anche se te le racconto non potresti capire. E allora piango in solitudine. Lo so che è il mio carattere, è che senti che non ti capirebbero e allora forse alla fine sei tu che ti rinchiudi un po’ in te stesso.
Forse ci sono cose che si possono sopportare da soli, e poi davvero, alcune persone non capirebbero manco se volessero. Io vorrei proprio evitare quella situazione in cui io mi apro, te ne parlo, ma poi va a finire che ti annoio. Cioè, capito? Io ti parlo dei miei sentimenti più intimi e tu li ascolti come se fossero una storiella, una barzelletta. Non potrei farcela, quindi alla fine meglio sopportare certe cose in solitudine.
Anche rispetto al metodo di lavoro questo laboratorio ha generato occasioni preziose di apprendimento, con spunti di riflessione che possiamo aggregare attorno a tre parole chiave: connessioni, condivisione e conoscenza.
Primo. Questa proposta ha raggiunto e convinto ragazze e ragazzi che non avevano alcuna significativa esperienza di partecipazione a iniziative di questo tipo. La maggior parte di loro non frequentava centri di aggregazione o socializzazione, non partecipava a iniziative di tipo socio-culturale, non frequentava corsi per il tempo libero, non aveva mai avuto occasione di sperimentare tecniche narrative, espressive e visuali.
Alcuni facevano fatica con la scuola, molti avevano una conoscenza superficiale della Città di Milano, quasi tutti avevano competenze limitate di lingua italiana. Per la prima volta questi giovani sono stati cercati e selezionati da un’istituzione e da organizzazioni del privato sociale; sono stati accompagnati in un percorso di riflessione centrato sulla loro esperienza, facilitato da professionisti italiani e sino-italiani; hanno costruito un blog e un cortometraggio che hanno avuto un pubblico ampio, eterogeneo ed entusiasta. In altre parole possiamo dire che per la prima volta la Città li ha riconosciuti e valorizzati come protagonisti, al di là del loro bisogno di aiuto o assistenza.
Secondo. Il gruppo è stato soprattutto uno spazio di condivisione e di relazione. Ognuno dei partecipanti ha avuto l’occasione di conoscere giovani con esperienze simili alla propria, di portare racconti e frammenti dalla propria storia in un ambiente protetto, di fare reagire il proprio sguardo e la propria parola con quella degli altri e delle altre. L’interazione con ragazzi di qualche anno in più o meno, portatori di punti di vista poco o molto diversi dai propri, ha permesso di posizionare il proprio percorso rispetto a quello di altri, ma anche di collocarlo nella trama di trasformazioni storiche, sociali e culturali del proprio tempo. In parallelo, l’azione del gruppo di facilitatori – giovani professionisti sino-italiani, mediatori linguistico-culturali, ricercatori italiani, sinologi, esperti di partecipazione, videomaker, tecnici… – ha innescato dinamiche preziose. Da un lato il trasferimento di competenze e sensibilità specifiche (di racconto, ricerca, espressione), dall’altro l’interazione tra giovane e adulto all’interno di un perimetro educativo strutturato: la relazione con un adulto percepito come simile permetteva il rispecchiamento e funzionava come aggancio, mentre il confronto con qualcuno percepito come radicalmente diverso obbligava a raccontarsi e tradursi nell’incontro con lo straniero. Nel tempo i presunti elementi di diversità e somiglianza si sono spostati e rimescolati, per scoprire infine che nazionalità, età e biografia non ci devono costringere a stare più lontani o più vicini di quanto desideriamo. Per tutti Il lavoro sulle storie e sulla storia ha permesso di esercitare competenze e sensibilità trasferibili anche da o verso ciò che stava all’esterno del gruppo di lavoro: la narrazione come prova di autocoscienza, la parola come specchio, il confronto come decentramento dello sguardo, la negoziazione in gruppo come pratica di cittadinanza, la ricerca come viaggio di scoperta, l’ascolto attivo come esercizio di empatia, il riconoscimento nell’altro come antidoto alla solitudine.
Terzo. L’ipotesi di partenza era che un laboratorio di ricerca tra pari potesse approfondire la conoscenza dei fenomeni connessi al ricongiungimento familiare in migrazione; rispetto a questa dimensione possiamo declinare la riflessione in due spunti. Da un lato è emerso chiaramente che non ci si può improvvisare ricercatori sociali. Fare un’intervista non è semplice perché non è facile mettersi in una posizione di ascolto attivo, curioso e rispettoso, ma anche perché non è facile fare la domanda giusta. Per farlo è necessario avere in mente una lettura complessiva e articolata dei fenomeni che ci si propone di esplorare ed essere pronti a farla reagire con la testimonianza che si sta raccogliendo, per indagare tutti i dettagli e tutte le sfumature che possono andare a confermare, smentire o arricchire il quadro d’insieme. Competenze basilari di ricerca e inchiesta sociale possono essere sviluppate, anche a 16 anni e anche senza avere frequentato percorsi ad hoc, ma questo richiede tempo. È quindi comprensibile che un’intervista condotta da un ricercatore esperto risulti più completa e più efficace, soprattutto se si tratta di un ricercatore con buone capacità di indagine -cosa non così diffusa- e con una buona conoscenza di base sulle migrazione dalla Cina e sullo specifico dei ricongiungimenti familiari -cosa ancora più rara. Nonostante ciò abbiamo avuto la fortuna di incontrare alcuni ragazzi e ragazze che hanno dimostrato di avere incredibili sensibilità di ricerca, e che hanno condotto esplorazioni di grande profondità. Non si tratta certo della maggioranza, ma questi casi sembrano indicare che è utile e possibile continuare a investire su metodi e strumenti di ricerca che siano al contempo partecipati e di qualità. D’altra parte il materiale di ricerca (interviste, mappe concettuali, micro-narrazioni per immagini, brainstorming, dibattiti tematici, oggetti e fotografie…) che abbiamo raccolto ed elaborato in gruppo ha un valore straordinario perché fa emergere con forza rappresentazioni della realtà più spontanee e immediate di quanto accadrebbe con una persona immediatamente percepita come distante o diversa. Questo significa che nella conversazione e nel confronto tra pari si ritrovano elementi conoscitivi che non si ritroverebbero altrove: gli schemi di pensiero e l’attribuzione di significati e priorità; la scelta degli argomenti da approfondire e di quelli da evitare; le modalità di rappresentazione, condivisione e gestione delle emozioni; la lingua, l’uso della linguaggio e la scelta delle parole; il riferimento a consumi culturali familiari, legati a web, musica, videoclip, programmi televisivi e altro. Si tratta di informazioni di preziose nella misura in cui permettono di ricostruire un punto di vista che raramente prende forma ed è tenuto in debita considerazione, ed è anche per questo ci sentiamo di rivendicare il valore delle pratiche di ricerca partecipata come occasione di redistribuzione del potere di rappresentare – e quindi trasformare – la realtà.
Tra le riflessioni di merito e quelle di metodo emerge finalmente un’immagine in positivo dei giovani cinesi che hanno intrapreso -volenti o nolenti- l’avventura del ricongiungimento familiare. Un’immagine fatta di potenzialità, competenze e desideri e non solo di mancanze, abbandoni e incidenti. Si tratta di ragazzi e ragazze