Nordest, la crisi non parla cinese - Attualità - Associna Forum

Autore Topic: Nordest, la crisi non parla cinese  (Letto 1982 volte)

0 Utenti e 1 Visitatore stanno visualizzando questo topic.

Idra

  • Socio di Associna
  • Livello: Cittadino del Mondo
  • *
  • Post: 2.842
    • Mostra profilo
Nordest, la crisi non parla cinese
« il: 23 Giugno, 2005, 09:43:04 am »
Non pensano di cadere nel ridicolo, anzi fanno la voce grossa, organizzano meeting, marce di protesta fino a Bruxelles. Gli industriali dell'ex mitico Nordest, tessili, calzaturieri con Unindustria al seguito invocano "misure d'emergenza", cioè dazi e protezioni fiscali alle merci provenienti dalla Cina. Vengono compilati elenchi di settori a rischio: apparecchi radiotelevisivi: +49% l'import cinese su base annua; metallurgia +157%; meccanica +51%; cuoio e calzature + 19%; abbigliamento +16%; editoria e stampa +33%. Insomma, l'invasione è in atto e i sistemi produttivi locali della piccola e media impresa variamente associati nei distretti, nei consorzi, nella miriade di zone industriali diffuse tra la Pedecollinare lombarda e la Pedemontana veneta e friulana sono entrati in una pesante crisi.

La lista della cassa integrazione e delle imprese in sofferenza è zeppa di nomi illustri: Safilo, De Longhi e Zanussi, Bassano Grimeca nel Polesine, Pedavena, Fiamm. 15 mila, 30mila, 60mila sono le previsioni che vengono fatte, a seconda delle fonti, dei posti di lavoro in pericolo. A cascata, si ipotizza, cadranno le microimprese dei subfornitori, dei contoterzisti. Non dimentichiamoci che la media dei dipendenti per azienda non supera le 5 unità nel Veneto e le 6 in Lombardia. Il "modello" nordestino delle Pim è entrato in una crisi strutturale. Cresciuto con la velocità del fulmine sfruttando le opportunità della apertura delle frontiere ad est e della svalutazione competitiva della lira negli anni '90, rischia di precipitare altrettanto velocemente. Per ironia della sorte è proprio lo Yen deprezzato e gli investimenti occidentali (italiani compresi) a fare la fortuna del miracolo cinese, indiano, pakistano, vietnamita, indonesiano. Per dei liberisti convinti, come lo sono i signori della Confindustria, e per dei raider dei mercati, come lo sono i piccoli industriali italiani, lamentarsi oggi per la concorrenza è davvero una insopportabile indecenza.

Quando lor signori vanno a vendere telai e macchine da cucire nei "paesi emergenti", cosa credono che ci facciano, ricami e merletti? I calcoli, in altre parole, dovrebbero essere fatti con più precisione, a "partita doppia", seguendo l'intera filiera produttiva e, forse, scopriremo che i luoghi dove si aggiunge più valore alle merci sono ancora in occidente. Ad esempio, i cinesi hanno dichiarato alla Commissione europea impegnata nelle trattative sul tessile che in termini di valore le importazioni di lino e di altri tessuti dall'Italia superano il valore delle esportazioni. Ma anche questo spiega poco.

Franco Bernabé, navigato manager dell'Eni, ora consigliere di amministrazione di società partecipate cinesi, inquadra precisamente la questione: ½La Cina non è il Giappone, la Germania, l'Italia che hanno avuto bisogno dei mercati esteri per crescere. Loro il mercato ce l'hanno in casa ed è enorme. Più della metà delle merci esportate dalla Cina sono fatte in outsourcing per multinazionali che si sono installate in Cina ma non sono cinesi. Alle imprese cinesi il mercato occidentale non interessa, è più costoso e più complicato, ha margini più bassi di quello domestico? (il manifesto del 10 giugno). Capito chi è che ci "attacca", ci "invade" e ci "affama", ci fa "concorrenza sleale", pratica il dumping e contraffa i gloriosi marchi della moda italiana? Le imprese occidentali stesse che, passo dopo passo, lungo la Romania, l'Ungheria, la Bielorussiaà hanno fatto rotta nel Far East asiatico. Le cause principali della "crisi" dei settori della manifattura rivolta all'esportazione sono i meccanismi di mercato liberisti, voluti dai governi occidentali in seno alle organizzazioni mondiali del commercio.

E' un'operazione politica orchestrata ad arte, in atto da tempo, che ha a che fare non solo con l'economia e l'equità sociale, ma con la stessa democrazia. La campagna anticinese giustifica i raid dei vigili contro le merci contraffatte dei venditori ambulanti africani nei centri turistici, alimenta l'insofferenza contro i lavoratori migranti extracomunitari ormai "inutili" e, quindi, socialmente pericolosi, dà la stura alle ritorsioni antieuropeiste come il ripristino della lira nei mercati ambulanti di Treviso sostenuta dalla Giunta regionale del Veneto. Il percorso di mistificazione è completato; gli operai e i ceti popolari "padani" hanno un falso nemico con cui prendersela e un nemico reale (i loro padroni e padroncini) con cui allearsi. Preoccupa l'afasia della sinistra e dei sindacati stessi. Il tessuto della piccola e media impresa ha fatto emergere una nuova borghesia industriale. Molti di loro se la vedono male, ma anche se sono "oggettivamente" sulla stessa barca dei loro dipendenti, possiedono ben altri e diversi mezzi di salvataggio.

22 giugno 2005

Paolo Cacciari

fonte: www.pane-rose.it
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da Idra »

Idra

  • Socio di Associna
  • Livello: Cittadino del Mondo
  • *
  • Post: 2.842
    • Mostra profilo
Se Cina non fa più rima con paura
« Risposta #1 il: 23 Giugno, 2005, 10:17:15 am »
Da il sole24ore, di Giorgio Barba Navaretti e Riccardo Faini

L' accordo raggiunto fra Unione europea e Cina che limita la crescita delle esportazioni di alcuni prodotti tessili verso l'Europa non ha sopito le polemiche fra liberisti e chi invoca ulteriori protezioni. Nondimeno, l'accordo presenta diversi vantaggi. Innanzitutto, si evita una guerra commerciale che si sarebbe ritorta contro i nostri esportatori e avrebbe impedito l'avvio di un dialogo serio su temi molto importanti per l'industria italiana quali la contraffazione. Uno dei tanti aspetti delle regole del commercio internazionale che è troppo poco rispettato e che va rafforzato. In secondo luogo, dovrebbe consentire alle nostre imprese di avviare pienamente il processo di ristrutturazione produttiva, fruendo di una temporanea e parziale protezione dalla concorrenza cinese. Soprattutto, diventa possibile valutare in un clima un poco più sereno la dimensione della ½ minaccia ? cinese e la strategia di politica economica da adottare nei confronti di tale paese. Sono tre i temi che andranno affrontati.
I vantaggi per le imprese.
La Cina, lo si ripete spesso, è un grande mercato. Le sue importazioni sono cresciute a tassi molto rapidi, analoghi a quelli delle esportazioni. ? un Paese sempre più aperto che, negli ultimi tre anni, ha dato un contributo fondamentale alla crescita dell'import mondiale, più elevato persino di quello degli Stati Uniti. Questa dinamica riflette non solo la crescita molto rapida dell'economia, ma anche il processo di liberalizzazione commerciale che ha visto i dazi cinesi sull'import scendere dal 43% nel 1991 al 12% nel 2003 con un ulteriore calo previsto dall'accordo con la Wto al 5,7% nel 2011. Tra il 1994 e il 2003 le esportazioni del resto del mondo verso la Cina sono cresciute del 257%, quelle dell'Europa del 186 per cento. E dell'Italia? Nello stesso periodo sono cresciute appena del 58 per cento. Il problema quindi nasce soprattutto dall'incapacità del nostro sistema economico di sfruttare le opportunità offerte dal mercato cinese.

I vantaggi per i consumatori.
Il dibattito in Italia si focalizza quasi esclusivamente sulle imprese. Si dimentica o perlomeno si trascura che una maggiore concorrenza da parte delle importazioni si traduce in generale in prezzi minori dei beni importati a tutto beneficio dei consumatori.
Gli effetti non sono trascurabili.
Le famiglie italiane spendono una parte cospicua del loro reddito, quasi il 10%, su tessili, abbigliamento e calzature. Un calo medio dei prezzi di tali beni del 20% aumenterebbe il reddito reale delle famiglie del 2 per cento. Il maggior potere di acquisto delle famiglie italiane si tradurrebbe in un aumento della domanda anche per altri beni con ricadute positive sugli altri settori e sui consumi aggregati. Si potrebbe obiettare che una parte importante della domanda italiana di beni d'abbigliamento non si rivolge ai beni cinesi, troppo specializzati nella bassa gamma. Verissimo.
Ma allo stesso tempo va ricordato come il peso dei consumi dei beni di minore qualità cresce al diminuire del reddito. Le importazioni sono a loro volta molto sbilanciate verso i beni a più bassa qualità. Una riduzione del prezzo di tali beni avrebbe quindi effetti del tutto benefici sulle classi meno abbienti e, di riflesso, un effetto redistributivo di segno favorevole.
La minaccia cinese. E' indubbio che i volumi delle importazioni di tessili e abbigliamento dalla Cina siano cresciuti a ritmi molto rapidi, mettendo in difficoltà una parte delle nostre imprese. Va però ricordato come all'aumento delle quantità ha fatto riscontro un calo significativo dei prezzi, come ricordava Daniel Gros su lavoce. info. L'aumento in valore rimane nondimeno significativo: nei primi tre mesi del 2005, secondo Eurostat, le importazioni dalla Cina verso i principali mercati dell'area dell'euro sono cresciute del 47% rispetto al periodo corrispondente del 2004. Il dato più sorprendente è però un altro: nel loro complesso, le importazioni di tessili e abbigliamento dai paesi extra Ue sono diminuite. L'aumento delle importazioni dalla Cina è avvenuto quindi a scapito di altri paesi, soprattutto di quelli in via di sviluppo.
Analoghi andamenti si riscontrano per le importazioni di calzature. La crescita delle importazioni extracomunitarie non è quindi la causa precipua delle difficoltà dei nostri produttori.
In estrema sintesi, le opportunità che l'integrazione della Cina nell'economia mondiale offre ai nostri consumatori e alle nostre imprese sono sicuramente maggiori dei costi che questo processo impone ad alcuni settori produttivi. Nondimeno è essenziale che la politica economica si ponga l'obiettivo di contenere questi costi e agevolare il processo di ristrutturazione delle nostre imprese, attuando veramente le politiche di sostegno alla competitività favorendo gli investimenti in ricerca e sviluppo, quelli in capitale umano, l'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese, riducendo l'onere fiscale a carico delle imprese, introducendo un moderno sistema di ammortizzatori spesso promessi, ma ancora più spesso rinviati. Anche le imprese dovranno ovviamente fare la loro parte, abbandonando produzioni per le quali si è eroso il vantaggio competitivo e investendo in capitale umano e ricerca e sviluppo. Altrimenti, fra qualche anno, alla scadenza dell'accordo, il cosiddetto ½ problema cinese ? si ripresenterà con ben maggiore gravità.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da Idra »

Guest

  • Visitatore
(Nessun oggetto)
« Risposta #2 il: 23 Giugno, 2005, 10:46:17 am »
Breve: le imprese italiane gridano allarme contro i prodotti cinesi e gli importatori cinesi, gia' perche' non fanno mai caso a tutti quegli italiani che importano roba cinese e poi lo vendono come italiana e ad un prezzo italiano.  Questi ci guadagnano 50 volte superiore al costo e alle spese e poi alla fin fine quelli che ci rimettono sono i consumatori e questi ascoltano solo le voci di quelli che vogliono far credere che sono solo dei cinesi la colpa.
« Ultima modifica: 01 Gennaio, 1970, 01:00:00 am da Guest »