La camorra contro i cinesi.
La China Town di Forcella che si ribella al pizzo
NAPOLI û Dai duecentocinquanta Euro dei piccoli negozi ai millecinquecento dei più grandi. Sono le ôtariffeö del pizzo che la camorra napoletana ha tentato di imporre ai negozianti di China Town poco prima di Natale, nel quartiere tra via Carriera Grande e via Poerio, nei pressi della stazione centrale, dove una volta i napoletani ti facevano ôil paccoö. Qui ora ci trovi quasi solo negozi cinesi. All’esterno non noti niente di diverso, se non le lanterne rosse appese ad ogni ingresso e le facce con gli occhi a mandorla che la fanno da padrone. Per il resto nella strada tutto come prima, anche gli acquirenti restano locali. Oramai sono decine e decine i punti vendita dei cinesi conquistati ai napoletani e dove, per la maggior parte, vendono materiale importato dalla Cina. Un Suk che fa gola anche alla camorra locale che ha tentato di imporre ai nuovi arrivati le antiche regole del pizzo.
La risposta di China Town è stata una serrata di massa contro le pretese della camorra. Una risposta inaspettata in questo pezzo di centro storico. Anche perché la ribellione alla camorra non è più un fatto all’ordine del giorno nemmeno per i commercianti napoletani che, invece, si sono adattati a convivere con le richieste della piccola e grande criminalità locale. ôHanno cominciato con piccole richieste û ci racconta uno dei commercianti di via Poerio che vuol restare rigorosamente anonimo û come qualche capo di abbigliamento, e poi hanno cercato di ottenere in tutti i modi dei soldiö. "Certo che abbiamo avuto paura e ne abbiamo ancora - ammette una ragazza cinese - per questo abbiamo chiesto alla polizia di proteggerci.ö Nei giorni precedenti alle richieste estorsive erano stati bruciati due negozi. Un deterrente forte anche per i più riottosi. Ma i cinesi di Napoli non si sono fatti intimidire: prima hanno abbassato le saracinesche in segno di protesta e contemporaneamente hanno distribuito un volantino, rigorosamente in cinese, chiedendo alla comunità di ribellarsi.
Attraverso la loro associazione dei commercianti, poi, si sono rivolti all’Ambasciata di Cina a Roma, che, a sua volta, ha attivato i canali istituzionali necessari a tutelarli. ôOra - dice ancora il nostro interlocutore - siamo pronti a difenderci, "anche con i coltelli" se ce ne fosse bisogno.ö E, intanto, la sera, a turno, girano ronde di cinesi per le strade, in macchina, a controllare la situazione. Gli investigatori non escludono che possano esservi altri motivi che hanno spinto i negozianti alla protesta. Qualcosa che abbia a che fare con la stessa comunità cinese o con altri gruppi di extracomunitari. ôNon mi risulta che abbiano pagato qualcosa - ci dice Maurizia Sacchetti, docente di Cinese da trent’anni presso l’istituto Orientale di Napoli e molto vicina alla comunità dagli occhi a mandorla û Questa è gente abituata a lavorare sodo per tantissime ore al giorno. Fanno una vita molto dura proprio per arrivare a risparmiare dei soldi che poi investono in altre attività. Dunque prima di cedere alle minacce di qualcuno che vuole farli pagare il pizzo, ce ne vorràö.
La comunità cinese è numerosissima. A Napoli ce ne sono alcune migliaia. La maggior parte invece si trova nelle fabbrichette che stanno nella zona vesuviana, in paesi compresi nell’area che va da S. Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Ottaviano, S. Gennaro, Poggiomarino e Boscoreale. E non è un caso: quella era tradizionalmente una zona di confezioni di abbigliamento, che negli anni ’90 cominciava a essere in crisi. Poi sono arrivati i cinesi per lo più dalla Toscana, poi direttamente dalla Cina e hanno messo su una serie di attività. Inizialmente facevano gli operai, con grande felicità degli imprenditori. Dopodiché hanno incominciato ad aprire anche loro delle fabbrichette. Così hanno imparato il mestiere e hanno aperto tante fabbriche, prezzi e a tempi di produzione imbattibili. Per cui gli operatori economici locali hanno chiuso. Dopo un po’ di tempo è successo che gli imprenditori locali si sono riciclati in commercianti. Ora i cinesi lavorano tutti in queste fabbriche come terziari, nel senso che ricevono commesse da commercianti italiani. E dunque i vecchi commercianti italiani locali si sono trasformanti in coloro che procurano le commesse. Per un po’ di tempo questo è andato bene. Adesso c’è di nuovo un periodo di crisi di rapporti perché i cinesi stessi si stanno trasformando a loro volta in intermediari.
ôQueste fabbriche cinesi che molte volte sono dette clandestine - ci spiega ancora Maurizia Sacchetti - in realtà non lo sono affatto, perché sono fabbriche regolarmente denunciate da commercialisti che sono diventati miliardari curando gli interessi dei cinesi. Il motivo per cui la finanza ogni tanto gli fa pagare multe, è che detengono operai clandestini. Allora gli chiudono la fabbrica per qualche giorno. Loro pagano le multe e poi riprendono a lavorare. Ma questo non cambia molto i loro affari perché hanno nel loro piano di lavoro la consapevolezza di restare chiusi due mesi l’annoö. I soldi guadagnati, generalmente, vengono reinvestiti in Italia in altre attività produttive. I cinesi stanno molto attenti a non far diventare mai troppo grandi le loro fabbriche. Casomai ne aprono altre per diversificare la produzione o per ôcolonizzare ô altri territori. Ora si stanno spostando in Sicilia.
ôIl lavoro si svolge così û spiega con cura la professoressa Sacchetti - la mattina arrivano le commesse, si lavora giorno e notte e alla fine poi si consegna. Quando non ci sono commesse si riposa. Gli operai sono pagati a cottimo. Loro sono contenti così perché con questo tipo di contrato guadagnano di più, per questo lavorano tanto. Ci? che guadagnano è proprio netto perché, oltre al fatto che non pagano tasse, dormono nella fabbrica o in alloggi che vengono procurati dal proprietario della fabbrica e a molti di essi gli danno pure da mangiare. Quindi nel giro di pochi anni pagano le somme enormi di debiti che hanno contratto per arrivare clandestini in Italia e poi cominciano a fare i piccoli imprenditori. Fanno come hanno fatto gli italiani in Americaö.
La comunità cinese, però, si pare poco all’esterno. Uno dei motivi di questa chiusura è che non riescono a parlare l’italiano. Riescono a parlare con il linguaggio quotidiano (dormire, mangiare, vendere, comprare). Il loro è un lavoro duro e una vita di sacrifici, perci? si sono ribellati alla camorra. Maurizia Sacchetti esclude anche un’altra ipotesi che pure era stata paventata: quella di uno scontro tra la camorra napoletana e la mafia cinese in via di formazione. ôQui la mafia cinese non mi risulta che esisteö. Invece a parlare della criminalità cinese a Napoli, è la relazione semestrale della Dia (la Direzione investigativa antimafia) presentata nell’ottobre scorso, nel capitolo che prende in esame Napoli e la Campania. I gruppi cinesi, si legge nell’analisi, ½tentano di inserirsi nel peculiare panorama camorristico napoletano attraverso la realizzazione e la commercializzazione di prodotti, soprattutto in pelle, caratteristici dei mercati ambulanti e cercano di proiettarsi in ambiti sempre più estesi?.
E proprio nello scorso mese di marzo, ad Acilia, vicino Roma, venne sequestrato il piccolo Xu, cinese di 5 anni da una banda di connazionali che avevano la loro base a Terzigno, una cittadina dell’entroterra napoletano. Il bambino, per il quale venne chiesto un riscatto di 75 mila euro, venne tenuto nascosto in un appartamento di Terzigno per due giorni. In carcere finirono sette cinesi - tra i 28 e i 40 anni - appartenenti ad un'organizzazione di 10-12 persone, dedita a sequestri lampo a scopo estorsivo.
http://www.lospettro.it/pagina723.htmAvranno fatto bene? oppure no? alla fine anche se si spendono 200 euro in piu al mee, l'attività non va in fallimento...
E poi dicono che i cinesi sono omertosi....eheh!!