l'idea che esista UNA "comunità cinese", spesso banalizzata facendola coincidere col falso concetto territoriale di "ChinaTown", che é del tutto improprio a Paolo Sarpi o all'Esquilino (o se é per questo che esista UNA comunità bengalese, che é invece lacerata da lotte politiche, da gruppi familiari, da associazioni, ecc., UNA comunità italiana a New York, UNA comunità maghrebina a parigi, UNA comunità marocchina a torino) é figlia del sistema classificatorio di matrice anglosassone adottato dalla sociologia occidentale. In GB, infatti, la struttura stessa dei rapporti fra migranti ed Istituzioni si basa sulla forzatura verso questo concetto, che trova la sua corrispondenza storica solo nei "millet" dell'Impero Ottomano...
Il fatto é che le Istituzioni italiane sono andate nello stesso senso, ad esempio lottizzando per origine geografica le rappresentanze nelle Consulte dei migranti, come se tutti i Cinesi o tutti i Senegalesi fossero un corpus unico e non avessero invece naturalmente frammentazioni.
E' un modo un po' razzista di credere che le collettività dei migranti sono realtà sociologicamente più "semplici" di quelle di romani, napoletani, milanesi che sono tutt'altro che omogenee (per ideologia, interessi economici, status sociale, tifoseria sportiva, gusti musicali, ecc.), che fa il paio con il modo altrettanto razzista di credere che nelle società occidentali la legge debba essere studiata dai giuristi, la sociologia dai sociologi, l'arte dagli storici dell'arte, la religione dagli storici delle religioni, ecc. mentre per le società non-Occidentali a noi Occidentali basta la figura onnicomprensiva dell'etnologo-antropologo.
anche io, anche noi usiamo "comunità cinese" in senso del tutto improprio.
rest il fatto che esistono certamente affinità (se non altro per il fatto di avere una lingua comune, almeno scritta, diversisima dall'Italiano e per le condizioni insite nell'essere stranieri) fra gli operatori commerciali (meno disomogenei socioeconomicamente che rispetto alle badanti, ai manovali, ecc.) cinesi ad esquilino e che le associazioni esistenti non li aiutano adeguatamente a fare di queste affinità (e anche della creatività individuale e delle differenze, perché no) ricchezze, valori, opportunità, come proprio le logiche della filiera e della rete permettono/richiedono.
perchè esse non si basano affatto sull'omologazione e la standardizzazione, ma su una diversificazione non selvaggia, su un'articolazione fra pluralità di scelte e correlazioni.
senza un ruolo trainante di alcuni soggetti individuali cinesi o seconde generazioni e, possibilmente, di 1-2 delle tante (troppe) associazioncine cinesi tutto ci? resterà impossibile.
spiace, personalmente, che quel che ho visto fare in Andalusia e Catalogna, a Parigi e ad Istanbul, a Trento e a Siena, quel che io ho contribuito a fare in aree difficili dell'Etiopia e in Tunisia, in Nicaragua e in Ghana, in Libano e in Siria non si riesca a fare né con gli operatori cinesi, né con quelli italiani a Roma, a Mazara del Vallo, a Lecce, a Genova...