Sperando nel vostro interesse proseguo il racconto per chi volesse leggerlo!
Nel torpore d’una tarda estate odorante di frutta matura prossima alla putrefazione, X ricordava suo zio lottare tenace ma quieto contro i monsoni. L’officina allagata, i pantaloni tirati su fino alle ginocchia, i piedi nell’acqua color del fango. Casse di materiale gli passavano fra le mani, cose importanti che non dovevano inzupparsi: era la figura più tragica del mondo, eppure sembrava sereno, felice. X anelava il suo segreto, sperava di riuscire a vivere come lui un giorno. Forse per i suoi vent’anni era ancora febbrile nelle scelte, viveva in modo frenetico, vedeva al futuro come una cosa incerta, lo scrutava nelle lucine stagliate contro le sagome color pervinca dei monti lontani.
X iniziava la mattina e finiva la sera, giornate di fatica per riparare piccoli trattori e di tanto in tanto anche furgoncini. C’erano poi dei mesi in cui il lavoro diminuiva drasticamente e lui e lo zio dovevano arrangiarsi cercando di rimettere in sesto biciclette, del resto quello era un servizio sempre richiesto.
A casa la sera sempre la stessa storia: venti minuti di bicicletta, lo squallore delle due stanze unte e la più nera solitudine. La luce dei lampioni entrava nella cucina dallo spiraglio di un’anta rotta, solo un filo, una linea netta sulla parete. La voce della piccola Z gli risuonava nella mente come una fantasma, sorrideva ogni volta immaginando la sua figura impalpabile correre sulla ceramica bianca.
Doveva lavorare, cucinare e riordinare da solo, il padre infatti a quell’ora era sempre a giocare a mahjong in qualche bettola malfamata. Alla fine preferiva non vederlo affatto, era intrattabile e pensava solo all’alcool, negli ultimi giorni era anche sempre più insistente nel chiedere denaro. La pietà filiale di X era già venuta meno, il loro rapporto era oramai un tacito ignorarsi.
La vita di X scorreva placidamente fra le amarezze e le piccole gioie della quotidianità. Non si riteneva del tutto sfortunato, lavorava, mangiava, sapeva sorridere e non gli mancava l’affetto degli amici.
Purtroppo la vita umile ma coscienziosa di un figlio pu? essere infranta, da un momento all’altro, dalla dissolutezza economica di suo padre. Era oramai un anno che Q perseguiva il suo stile di vita debosciato, il patrimonio del nonno era stato oramai dissipato in facezie: alcol, gioco d’azzardo e puttane che infangavano la memoria della sua defunta madre. Forse aveva preso sottogamba il problema, ma davvero non sapeva come aiutare quel derelitto scorbutico e violento di suo padre, aveva ormai smesso di provare stima od affetto per lui; X non si sarebbe mai aspettato di trovare compromessa la propria vita per colpa di quel degenerato.
Q si era infatti rivolto a certi famosi strozzini per compiacere il suo alcolismo e per perseverare nel gioco, aspettando una vincita che non arrivava mai. Non potendo racimolare più nulla da quel vecchio, le cui finanze erano oramai prosciugate, i delinquenti si rivolsero con tono minaccioso a X.
L’odore di fritto gli penetrava nelle narici, com’era diversa la cucina nella sua Wenzhou!
Con le mani in tasca gettava gli occhi al di là del mare, profondo ed inconoscibile adriatico, chissà se per lo zio R sarebbe stata la stessa cosa guardare la costa natia o quella di questo paese remoto che è l’Italiaà
Le lanterne rosse illuminavo la facciata del ristorante ôHong Kongö, un nome banale ed un po’ ingenuo, ma ora quello era il luogo che dava a lui da vivere. Aveva l’impressione di vedere la salvezza, la casa ed il calore in quell’edificio intonacato di fresco. L’insegna mostrava una veduta notturna un po’ sbiadita dalla pioggia, sulla porta, fissato con del nastro adesivo, capeggiava un menù scritto in italiano stentato.
Dal retro avanzava un tepore gelido di luce verdastra, il rumore dello sciacquio dei piatti, le scodelle che si urtano fra di loro, una canzone intonata a mezza voce.
Gli ultimi clienti avevano lasciato il locale con gentili saluti e complimenti, in fondo sono persone simpatiche, pensava X fumando una sigaretta.
Il cameriere à ma chi lo avrebbe mai detto? Fino ad una settimana prima della partenza non se lo sarebbe mai aspettato di finire a fare il cameriere in un ristorante italo-cinese, lo trovava buffo senza capire precisamente il perché. Malgrado tutto, continuava a sorridere, accontentarsi della propria vita, per quanto umile potesse essere, questo insegnamento era il regalo più bello che lo zio R gli aveva donato. Calpestando il mozzicone col piede gettò lo sguardo nel parcheggio vicino, una luce bianca di neon illuminava il piazzale.
Macchine, macchine e poi motorhome zeppi di adesivi crepati dagli acquazzoni da camping estivo. Polvere sui vetri, polvere sulla carrozzerie bianca plastica, polvere su tutto: uno strato coprente di grommoso pulviscolo grigio.
Era notte, qui più che altrove. A cento metri di distanza stava il molo con le sue barche attraccate e galleggianti, docili carcasse alla deriva che celavano una potenza sopita. L’acqua era del tetro color del cielo, profonda, abissale, gelida alla vista pareva inghiottire in un mulinello la calura estiva. Le luci al neon non la fendevano, si limitavano a creare un’ombra fluorescente sulla sua superficie. Sulla promenade, dove il ristorante si affacciava, le palme erano imputridite, il verde rigoglioso si faceva decadente secernendo linfa copiosa. Il giallo secco si frammentava al tocco come polvere aurea sospinta dal vento, silente veleggiava verso il mare. Il vocio era poi insopportabile, dall’alto al basso non si sovrapponevano che voci, stanche, affrante, assonnate, gioiose. Erano le voci dei turisti, dei bagnanti riarsi da una giornata di luglio fatta di bagni di sole e tuffi dagli scogli.
Il faro del molo svettava grigio lamiera contro la volta celeste. Il cielo attorno alla sua luce andava assumendo un vago sentore paonazzo. Tre corone di luce abbacinavano la vista di X, i suoni erano ovattati dalla spossatezza dovuta ad un sabato sera pieno di clienti. La sagoma color pervinca dei promontori lontani gli dava un senso di nostalgia, da lontano non parevano tanto diversi dai monti della sua città. Decine di minuscole lucette bianche rilucevano come stelle avviticchiate nel nero universo. Abitazioni, paesini, luoghi: vita. La vita lontana che riluceva ad intermittenza come se con flebile voce dicesse ôEsisto! Anche qui c’è qualcuno, non sei solo!ö. X poteva stare ore a guardarle immaginando cosa avvenisse sotto la loro egida, erano avvolte da un senso di mistero, di celato oltre la vista. Come in un sogno si ricordò delle lucine memori del suo futuro quando ancora stava a Wenzhou.
<< Magari da lontano anche io sembro una lucina, per qualcunoà >>
Ad un tratto comprese il comportamento dello zio R, adesso tutto era chiaro. Sorrise scuotendo il capo, indolcito dalla nostalgia una lacrima gli rig? il volto.