e per aver esercitato una loro legale prerogativa, una volta incarcerati, perdono molti altri diritti. Vengono sottoposti a torture fisiche e mentali e tenuti in isolamento, in condizioni ben al di sotto di ogni standard internazionale. Perdono inoltre il diritto a un processo giusto o a qualsiasi garanzia legale, rimanendo privi di ogni possibilità di difendersi dalle accuse.
IL SISTEMA LEGALE CINESE: ôPrima il verdetto, poi il processoö
Secondo l’ordinamento giuridico cinese, diritti legali basilari quali la ôpresunzione di innocenza fino a prova contrariaö e il diritto alla difesa sono sostituiti dalle linee di principio cinesi ôprima il verdetto, poi il processoö, ôclemenza per chi confessa, severità per chi negaö oppure ôcorrezione e rieducazione attraverso il lavoroö.
Durante le indagini, che possono durare da diversi mesi fino a un anno, il sospettato è generalmente tenuto in isolamento e, in molti casi, è ignorata anche la disposizione in base alla quale la polizia deve informare la famiglia del sospettato entro 24 ore dall’arresto.
Molte famiglie non sono mai ufficialmente informate dell’arresto dei loro parenti e sono avvisate solo al momento del processo. Anche allora, le famiglie incontrano molte difficoltà a capire esattamente in quale prigione i loro cari siano detenuti. La mancanza di informazioni rende l’intera esperienza ancora più stressante sia per i prigionieri sia per le loro famiglie.
Nel nuovo Codice di Procedura Penale è stata introdotta l’espressione ôminaccia per la sicurezza dello statoö, che sostituisce l’espressione utilizzata in precedenza di ôcontro-rivoluzionarioö. Questo consente alle autorità cinesi di utilizzare la formula ôsegreto di statoö a giustificazione dell’arresto e della detenzione e negare al sospettato il diritto alla difesa per tutto il periodo delle indagini e degli interrogatori.
Per gli imputati politici Tibetani è molto difficile ottenere un difensore soprattutto per motivi finanziari o per la riluttanza degli avvocati che temono di essere accusati di sostenere i ôseparatistiö.
Gli imputati sono anche restii a ricorrere in appello, poiché i ricorsi sono generalmente inutili e l’Alta Corte si limita a confermare la decisione del tribunale di primo grado, senza rivedere il caso. Chi ricorre in appello pu? anche dover subire un verdetto più severo in quanto il giudice d’appello pu? prolungare la pena detentiva.
LIMITAZIONE DELLA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE
Il diritto alla libertà di espressione e di opinione è chiaramente espresso nell’Articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: ôCiascuno ha diritto alla libertà di opinione e di espressione; questo diritto include la libertà di professare le proprie opinioni senza intromissioni e di chiedere , ricevere o diffondere informazioni o idee attraverso qualsiasi mezzo e senza limiti di frontiereö. Tuttavia, in Tibet, l’esercizio del diritto alla libertà di parola e di espressione non esiste: esprimere una qualsiasi opinione contraria alle politiche del governo cinese è considerato anti-nazionale e le conseguenze sono l’arresto e la detenzione.
La Repubblica Popolare Cinese ha costantemente negato al popolo del Tibet il fondamentale diritto di professare le proprie opinioni politiche o religiose. Per questo motivo la Cina ha avviato, nel 1996, la campagna ôColpisci Duroö che mira a sradicare la fedeltà dei tibetani nei confronti del Dalai Lama, del Panchen Lama tibetano e della stessa nazione tibetana. Inizialmente limitata alle istituzioni monastiche, nel 1999 la campagna è stata estesa a tutto il contesto sociale. Nel gennaio 1999, la Cina a lanciato una campagna a favore dell’ateismo, violando il diritto dei tibetani a professare la loro religione. Qualsiasi espressione pacifica del nazionalismo tibetano o di critica alla politica cinese pu? portare all’arresto.
ARRESTI E DETENZIONI ARBITRARI
Secondo le Nazioni Unite, un arresto si considera illegittimo se effettuato (a) su basi o secondo procedure diverse da quelle previste per legge; oppure (b) secondo previsioni di legge che siano in contrasto con il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona. Tutte le forme di espressione contrarie al Partito Comunista Cinese sono causa di arresto in Tibet. Quasi tutti i prigionieri politici tibetani sono stati arrestati e detenuti arbitrariamente. L’accusa più comune consiste nell’imputazione di ôminaccia alla sicurezza dello statoö. Il nuovo Codice di Procedure Penale cinese non ha introdotto alcuna misura che limiti l’incidenza degli arresti arbitrari e quindi i tibetani corrono ancora il rischio di essere arrestati per aver espresso opinioni contrarie alla ideologia ufficiale cinese. Il problema fondamentale in Tibet è che le considerazioni politiche vengono anteposte alle norme del codice penale.
Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Illegittima, riunitosi in Tibet nel 1997, ha espresso in questi termini la sua preoccupazione: ôanche se l’espressione crimini contro-rivoluzionari è stata abolita, la giurisdizione dello Stato è stata ampliata. Di conseguenza, anche le azioni dei singoli individui, nell’esercizio della propria libertà di espressione e di opinione, possono essere considerate minaccia alla sicurezza nazionale.ö Ci? consente alla Repubblica Popolare Cinese di continuare ad effettuare arresti arbitrari per sopprimere le opinioni sovversive, in aperta violazione del diritto alle libertà civili individuali e del diritto alla libertà di espressione ed opinione.
LE CONDIZIONI CARCERARIE
Le condizioni carcerarie in Tibet sono disumane. Vengono applicati innumerevoli metodi di tortura, sia fisici che psicologici, per estorcere ôconfessioniö o semplicemente come strumenti di umiliazione quotidiana. Le celle sono estremamente piccole rispetto al numero dei prigionieri detenuti e i prigionieri, anche durante l’inverno, generalmente dormono sul pavimento, senza materassi né coperte. L’igiene non viene tenuta in alcuna considerazione: le celle sono sporche, talvolta con escrementi sul pavimento; i prigionieri hanno come unico servizio igienico un bidone che viene tenuto nella cella, spesso nello stesso spazio dove devono mangiare; ci sono pochissime opportunità di potersi lavare ed alle donne non sono forniti gli assorbenti igienici durante le mestruazioni.
Jampel Monlam è uno dei tanti prigionieri politici Tibetani che ha trascorso anni dietro le sbarre per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione. Ha trascorso cinque anni nella prigione di Drapchi dove veniva tenuto in una piccola cella con altri 12 prigionieri. Dormivano tutti in un unico lungo letto e dovevano condividere un bidone come servizio igienico. Durante i suoi cinque anni di detenzione poté lavarsi solo due volte.
Cibo ed acqua sono bisogni umani elementari e devono essere forniti in quantità adeguate. Invece, le autorità cinesi razionano sia cibo che acqua come forma di punizione. Il regime alimentare in prigione è decisamente povero sia per qualità che per quantità. In molti casi il cibo è anche estremamente sporco o cosparso di insetti morti.
Un certo numero di prigionieri politici viene inoltre messo in cella di isolamento quale punizione per le più disparate attività, dall’aver partecipato a manifestazioni di protesta all’aver cantato canzoni inneggianti alla libertà. Questi prigionieri vengono messi in celle buie ed anguste che misurano circa 2 metri per 1 metro, spesso con mani e piedi ammanettati e le loro razioni di cibo sono ulteriormente ridotte. La detenzione in isolamento è una delle peggiori esperienze carcerarie di cui si abbia testimonianza. Negli anni ’80 la Cina introdusse anche una nuova forma di detenzione in isolamento conosciuta come ôcella freddaö. Le piccole celle sono foderate di lamiera così che la temperatura pu? scendere fino a û10? C .
Gaden Tashi fu tenuto in cella di isolamento per 34 giorni nel carcere di Outridu. ôNei primi tre giorni ebbi una paura insopportabile e pensai addirittura al suicidio. Quella cella buia era considerata dalla maggior parte dei prigionieri come una delle più spaventose esperienze che ci potessero capitare à Quando il tempo era bello e c’era il sole, in cella riuscivo appena a vedere le mie mani. Se il tempo era coperto, non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte. Quando fui rilasciato, rimasi cieco per diverse ore, non riuscivo a vedere nulla.ö
LE TORTURE IN CARCERE
Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura crudeli e degradanti che includono, fra gli altri, il ricevere scariche elettriche in ogni parte del corpo per mezzo di un pungolo per bovini e l’essere obbligati a rimanere a piedi nudi sul terreno ghiacciato fino a che la pelle dei piedi non rimane attaccata al terreno stesso.
Le tecniche di tortura impiegate nelle prigioni cinesi cambiano di volta in volta e nuovi metodi di tortura sono messi a punto per non lasciare tracce visibili. Molti ex prigionieri hanno detto di aver sentito dire dagli ufficiali delle prigioni frasi come ôNon ferirlo all’esterno del corpo, mettilo fuori uso con delle ferite interne.ö
Oltre alle torture fisiche, i prigionieri devono subire talvolta veri e propri traumi psicologici. Per obbligarli a denunciare il Dalai Lama o altri compatrioti, gli ufficiali delle prigioni spesso minacciano i prigionieri di fare del male alle loro famiglie.
Le donne prigioniere politiche in Tibet subiscono le forme di tortura più degradanti. Spietati pestaggi, stupri e violenze di tipo sessuale, quali lacerazioni ai capezzoli, l’inserimento di pungoli elettrici per bovini nei genitali o scosse elettriche date tramite cavi elettrici avvolti intorno al petto ed al corpo sono alcune fra le tante atrocità di cui si ha testimonianza.
Nel 1997, la Commissione Internazionale dei Giuristi interrog? in Tibet ex poliziotti, giudici e detenuti e confermò che la tortura dei detenuti politici era una pratica comune.
LE CURE MEDICHE
I prigionieri vengono generalmente ricoverati a seguito delle gravi ferite ricevute durante le torture o per le malattie contratte a causa delle pessime condizioni igieniche. Alcuni ex prigionieri politici hanno riferito che, durante il loro ricovero in ospedale, le famiglie ebbero difficoltà a riconoscerli. Se i prigionieri si ristabiliscono, devono tornare in prigione per finire di scontare la condanna.
I detenuti che vengono ricoverati sono generalmente accompagnati dalle guardie carcerarie e in alcuni casi sono anche ammanettati al letto dell’ospedale. Se, una volta ricoverato, il prigioniero non mostra segni di miglioramento, viene imposto alla sua famiglia di firmare una ôdichiarazione di responsabilitàö, il che significa che dovrà pagare tutte le spese mediche a partire dalla data della firma.
Se una persona è in punto di morte a causa delle torture, viene rilasciata su ôparere medicoö. Questa procedura ha due motivazioni principali: in primo luogo gli ospedali del carcere non hanno le strutture adatte a fornire cure adeguate e, in secondo luogo, se un prigioniero muore fuori dalle mura del carcere, il governo cinese appare meno colpevole.
La Tortura in Tibet
Il 4 ottobre 1988 la Repubblica Popolare Cinese ha ratificato la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite Contro Tortura e Altri Trattamenti o Punizioni Crudeli e Degradanti, e ha rassicurato con queste parole la comunità internazionale: ôla Cina renderà effettivi, in buona fede, gli impegni presi nella Convenzioneö.
Da allora, è stato accertato che oltre 70 prigionieri politici tibetani sono stati torturati a morte e più di cento massacrati per aver partecipato a dimostrazioni a favore dell’ indipendenza. Un giornalista cinese, esponente dell’Associazione dei Giornalisti Cinesi, ha dichiarato che, soltanto nel marzo 1989, più di 450 tibetani, inclusi monaci, monache e civili, furono uccisi per aver preso parte alle dimostrazioni.
Il Comitato Internazionale delle Nazioni Unite contro la Tortura ha ripetutamente chiesto alla Cina di varare nuove leggi e bandire ogni forma di tortura. Nel rapporto stilato nel maggio 1996, il Comitato ha così dichiarato: ôE’ stato un errore inserire la definizione di tortura all’interno del sistema legale cinese nei termini previsti dai provvedimenti della Convenzioneö.
Da quando la Cina occupò il Tibet nel 1959, la tortura è stata usata come principale metodo di repressione contro il popolo tibetano. I prigionieri che maggiormente rischiano la tortura sono i prigionieri politici, molti dei quali sono monaci e monache che sono spesso imprigionati solo per aver esercitato la loro libertà di espressione a sostegno del Dalai Lama.
La Cina dichiara di aderire alla legge internazionale che bandisce completamente il ricorso alla tortura. Nel 1992, Pechino riferì al Comitato ONU contro la Tortura di aver adottato leggi efficaci e altre misure atte a ôproibire rigorosamente tutti gli atti di tortura e garantire che i diritti dei cittadini non fossero violatiö. Tuttavia, le dichiarazioni rilasciate dai prigionieri testimoniano che in Tibet la tortura è molto diffusa. Nel rapporto pubblicato nel dicembre del 1997, anche la Commissione Internazionale dei Giuristi dichiara che la tortura è stata, e continua ad essere, normalmente applicata su larga scala in tutta la Cina.
LA TORTURA NEI CENTRI DI DETENZIONE
Ex prigionieri politici hanno descritto innumerevoli metodi di tortura degradanti e crudeli. Eccone alcuni: essere appesi al soffitto con le mani legate dietro la schiena; essere percossi con bastoni elettrici; subire scosse elettriche su tutto il corpo; essere colpiti con tavole di legno e bastoni; essere assaliti dai cani; essere costretti a rimanere nudi davanti agli altri detenuti, talvolta durante i pestaggi; essere appesi e lambiti da fuochi accesi sotto i piedi che vengono spenti quando ormai gli occhi sono bruciati dal fumo; essere forzati a stare in piedi sul pavimento ghiacciato fin quando la pelle dei piedi si stacca dagli arti; sottostare a lunghi periodi di isolamento e privazione di cibo, acqua e riposo.
Col passare del tempo i funzionari carcerari cambiano le loro tecniche e adottano nuovi metodi di tortura che non lasciano tracce visibili. Molti ex-prigionieri hanno sentito pronunciare dai secondini frasi di questo tipo: ô Non colpirlo all’esterno del corpo, sfiniscilo con ferite interneö.
Oltre alle torture fisiche, i prigionieri sono a volte costretti a subire traumi psicologici. Gli addetti carcerari spesso minacciano di colpire le famiglie dei prigionieri, li costringono a disconoscere il Dalai Lama e li obbligano a denunciare altri tibetani di partecipazione ad attività politiche.
Nel 1989, Lhundrup Ganden, un monaco di trent’anni anni del monastero di Ganden, fu condannato a sei anni di carcere. Nel 1992, temporaneamente paralizzato per le terribili torture subite, fu rilasciato. Il suo racconto fornisce l’idea della brutalità che sperimentò in prigione: ôla tortura peggiore consisteva nel farmi spogliare e percuotermi con bastoni elettrici su tutto il corpo. Alla fine non ero più in grado di dormire supino. La pelle si gonfiava, diventava verde e blu, e c’erano anche dei tagli. Venivano sempre usati bastoni elettrici e filo metallico. Legavano il filo intorno ai miei polsi e la scossa era estremamente dolorosa.ö
Uno dei metodi di tortura più diffusamente descritti da ex detenuti consiste nell’essere legati al soffitto col un fuoco acceso sotto. Spesso nel fuoco viene gettato del pepe che produce un fumo denso e aumenta le bruciature. Jampel Tsering, un monaco del monastero di Ganden, detenuto cinque anni nella prigione di Drapchi per aver guidato una dimostrazione a Lhasa nel 1989, così ricorda: ôQuando gettavano la polvere di pepe nel fuoco, la sensazione di bruciore su tutto il corpo era terribile e, ogni volta, non potevo aprire gli occhi per diverse oreö.
CURE MEDICHE NEGATE ALLE VITTIME DI TORTURE
Il governo cinese dichiara che ai prigionieri sono concessi i trattamenti medici necessari. Al contrario, molte delle morti avvenute per torture e maltrattamenti si sono verificate per mancanza di assistenza medica durante la prigionia. Oltretutto, dopo il rilascio, i detenuti devono accollarsi il costo delle spese mediche. In molti casi, ai detenuti è stato chiesto di risarcire le autorità delle spese sostenute per loro salute durante la prigione e delle spese mediche affrontate in conseguenza dei maltrattamenti subiti.
Phuntsok, un monaco di ventidue anni del monastero di Nalanda, fu arrestato nel febbraio 1995, dopo i duri interventi dei funzionari cinesi a causa della resistenza alla campagna di ri-educazione. Nel centro di detenzione di Gutsa, durante l’interrogatorio, gli ufficiali del PSB lo accusarono di nascondere alcuni documenti e per questo fu torturato. Nel febbraio 1996 fu rilasciato per motivi di salute ma durante la detenzione gli furono sempre negate le cure mediche. Per un certo periodo fu ammesso all’ospedale della Regione Autonoma Tibetana. Le spese per le cure incisero fortemente sulle magre risorse economiche della sua famiglia, anche perché la salute non migliorava. Morì nel marzo del 1999, quasi tre anni dopo il suo rilascio.
DONNE TORTURATE
Oltre ai trattamenti brutali, le donne in prigione devono sottostare ad abusi sessuali. Pestaggi crudeli, digiuni, violenza sessuale, aggressioni da parte di cani feroci e atti sessuali violenti sono tra le più crudeli atrocità di cui è data testimonianza. Tra le violenze di carattere sessuale vanno annoverate le lacerazione dei capezzoli, i bastoni elettrici forzati nella vagina fino a provocare la perdita della conoscenza e il filo metallico avvolto attorno al petto e al resto del corpo accompagnato da scariche elettriche.
Durante la prigionia, la monaca Tenzin Choeden, di diciotto anni, fu violentata sessualmente con un bastone elettrico. Fu arrestata insieme ad altre 12 monache per aver preso parte a una dimostrazione a Lhasa il 14 febbraio 1988. Mentre era detenuta nel centro di Gutsa, quattro carceriere le ordinarono di alzarsi e di mettersi contro il muro. Tenzin ha riferito di aver discusso con le donne e di averne pagato le conseguenze: ôHanno inserito un bastone nella mia vagina per quattro volte con estrema violenza. Poi mi hanno messo il bastone in bocca. Ho provato a tenere la bocca chiusa ma spingevano forte. Ho perso due denti e le mie labbra sanguinavano.ö Dopo essere stata rilasciata, nel 1991, Tenzin scappò in India. A causa dei pestaggi continui e delle torture subite, ha perso un terzo della sua capacità fisica e ha grossi handicap su tutta la parte destra del corpo. Durante la detenzione, alle donne gravide è riservato lo stesso trattamento.
LA MORTE A CAUSA DELLA TORTURA
In seguito al duro trattamento subito, alcuni prigionieri sono morti.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha accertato che, dal 1987 ad oggi, settanta prigionieri sono morti a causa delle torture subite. Solitamente, se a causa delle torture un prigioniero è prossimo a morire, è mandato in ospedale o comunque rilasciato. Una volta in ospedale, si chiede alla famiglia di firmare una ôaccordo di responsabilitàö che impegna i parenti al pagamento delle sue spese mediche. Spesso i detenuti muoiono al di fuori delle mura della prigione rendendo così il governo cinese apparentemente meno responsabile dei loro decessi.
Sonam Wangdu, morì nel marzo 1999 nella sua residenza a Lhasa. Wangdu fu arrestato nell’aprile 1988 perché ritenuto coinvolto nell’uccisione di un poliziotto cinese durante la repressione di una dimostrazione, il cinque marzo di quell’anno. Durante la sua detenzione a Gutsa, fu duramente torturato e riportò danni permanenti a un rene e la rottura della colonna vertebrale. Soffrì di problemi urinari e divenne paraplegico. Secondo Bhangro, un ex prigioniero politico, Wangdu fu picchiato con bastoni elettrici e tenuto ammanettato, gambe e piedi, per un periodo di sei mesi. Fu tenuto appeso dai tre ai cinque giorni e messo in isolamento per una settimana. La sua testa venne tenuta immersa con la forza in un secchio d’acqua e gli fu tolto il sangue senza consenso.
Gli ultimi casi di morte a causa delle torture si sono verificati nella stessa prigione di Drapchi, nel maggio del 1998. In seguito a due dimostrazioni, furono uccisi 11 prigionieri. Tre furono fucilati, tre morirono a causa di crudeli pestaggi, tre morirono per soffocamento, uno fu impiccato e la causa della morte degli altri due rimane sconosciuta.
DONAZIONI DI SANGUE E DI SIERO FORZATE
Il prelievo forzato di sangue è un’altra delle forme di tortura fisica e psicologica utilizzate dai funzionari cinesi. Questo metodo è utilizzato per indebolire fisicamente i prigionieri. Ad altitudini così elevate, una consistente perdita di sangue indebolirebbe anche una persona in ottima salute. Uniti a diete povere e alle torture fisiche, i prelievi di sangue provocano spesso la morte dei detenuti. Poiché i prigionieri non hanno mai saputo il motivo di queste donazioni e non hanno mai ricevuto i risultati di alcun test, è possibile che siano fatte non solo come punizione ma anche per effettuare degli esperimenti.
TORTURE SUI MINORENNI
Malgrado la Cina, nell’aprile 1992, abbia firmato la Convenzione per i Diritti dei Bambini, detenzioni, arresti e torture di giovani al di sotto dei diciotto anni continuano ad essere pratiche usuali in Tibet.
I giovani vengono detenuti nelle stesse carceri degli adulti, viene loro negato un avvocato, non possono avere contatti con le famiglie e sono soggetti alle stesse forme di lavoro forzato e di torture degli altri detenuti.
Sherab Ngawang, che morì all’età di 15 anni, è considerata la più giovane prigioniera politica morta a causa delle torture subite. Per aver cantato con altre monache in prigione, sembra sia stata picchiata con bastoni elettrici e tubi di plastica riempiti di sabbia. Un testimone ha dichiarato: ôLa colpirono fino a quando fu completamente coperta di contusioni tanto che anche noi stentavamo a riconoscerlaö. Altre persone hanno riferito che fu confinata in isolamento per tre giorni e, quando uscì, aveva gravi problemi alla schiena e ai reni. Perse anche la memoria e aveva difficoltà a mangiare. Morì due mesi dopo essere stata rilasciata.
LAVORI FORZATI ED ESERCIZIO FISICO
In tutte le prigioni cinesi in Tibet i detenuti sono costretti a un duro lavoro. Durante il giorno i lavori forzati spesso si accompagnano a esercizi fisici che, uniti a una dieta povera, indeboliscono notevolmente i prigionieri. Spesso in Tibet i detenuti vengono utilizzati nell’agricoltura e nel taglio del legname, settori in cui il lavoro è molto richiesto e gli incidenti più frequenti.
Ai detenuti è in molti casi chiesto di raggiungere determinati ôtargetö di produzione per consentire alle autorità carcerarie di trarre un guadagno dal lavoro dei forzati. Queste quote sono obbligatorie, anche se i detenuti sono malati.
Ngawang Lhundrup, di circa 23 anni, dopo estenuanti interrogatori e torture durante la sua detenzione nella prigione di Gutsa, fu mandato ai lavori forzati. ôQuando ci permettevano di fermarci, la sera, le nostre mani erano piene di vesciche ed eravamo letteralmente esausti.ö
Ngawang Jinpa, anche conosciuto come Lobsang Dawa, morì a Phenpo, suo villaggio natale, il 20 maggio 1999. Dopo il suo arresto, il 6 maggio 1996, Ngawang Jinpa fu detenuto nella prigione di Gutsa per otto mesi dove fu crudelmente picchiato. Secondo le parole di Legshe Drugdrak, un monaco di Nalanda della Contea di Phenpo che divise la cella con Jinpa, ôquando Jinpa arriv? era molto debole. Gli ufficiali continuarono a torturarlo e lo forzarono a lavorareö. Nel marzo del 1999, la salute di Jinpa peggiorò a tal punto che gli ufficiali lo mandarono all’ospedale militare della Regione Autonoma Tibetana, vicino al monastero di Sera, dove gli furono diagnosticati danni al cervello. Le sue condizioni erano così critiche che le autorità cinesi lo rilasciarono per motivi di salute il 14 marzo 1999. Quando morì aveva 31anni.
L’incapacità di fare un qualsiasi esercizio nel modo richiesto è immediatamente punito, di solito con pestaggi. I detenuti risentono molto di queste esercitazioni, non solo per lo sforzo fisico, ma anche per il controllo mentale loro richiesto.
La discriminazione razziale
All’interno del loro paese, i tibetani hanno subito ogni genere di violazioni dei diritti umani e discriminazioni razziali. La Costituzione cinese e la Legge sull’Autonomia Regionale delle Etnie affermano che la Regione Autonoma Tibetana (TAR) ôgode dei più ampi diritti di autonomia sia in materia di legislazione, dell’uso delle lingue locali parlate e scritte e dell’amministrazione del personale, sia in campo economico, finanziario, scolastico e culturale, della gestione e lo sviluppo delle risorse naturali e in altri settoriö.
Nel 1981 la Cina ha accettato formalmente di rispettare le leggi internazionali menzionate nella Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale (International Convention on the Elimination of all forms of Racial Discrimination, CERD) che proibisce ogni distinzione, esclusione o preferenza basate su razza, colore, discendenza oppure origini etniche o nazionali.
Malgrado queste garanzie legali, i tibetani, definiti ôminoranza razzialeö dalla Repubblica Popolare Cinese, subiscono discriminazioni in ogni settore.
La discriminazione sistematica in campo sanitario, educativo, lavorativo, abitativo e della rappresentatività pubblica, continua a ostacolare la partecipazione dei tibetani allo sviluppo del proprio paese e ne ha svilito la posizione sociale al punto che, solo a causa della loro razza, sono considerati cittadini di rango inferiore. Se non saranno prese misure per porre rimedio alle discriminazioni prima che il Tibet occupato diventi la tomba di un’intera nazione, le ingiustizie e le disuguaglianze diverranno, entro breve, irrevocabili.
L’IMPIEGO
Il trasferimento di popolazione cinese in Tibet costituisce una delle minacce più gravi per l’impiego. Il massiccio afflusso dei cinesi è stato incentivato da salari più alti, ferie più lunghe, esenzioni fiscali e da migliori condizioni in materia di pensioni e investimenti.
I tibetani sono inoltre discriminati in molti settori. La maggioranza dei rifugiati riferisce che i datori di lavoro esigono la perfetta conoscenza della lingua cinese, indipendentemente dal tipo di lavoro. I tibetani sono vittime di pregiudizi e, essendo considerati incapaci e arretrati, sono loro offerti solo lavori umili, spesso a patto che, nella vita privata, abbandonino le usanze tipiche della loro cultura. La corruzione è prassi comune per ottenere un posto di lavoro ed è l’unico modo per spezzare quella rete di connessioni che assicura ai cinesi, proprietari della maggior parte delle imprese private e detentori di tutte le posizioni chiave, ogni tipo di lavoro e permesso.
Spesso i tibetani sono costretti a pagare per ottenere le licenze di commercio, da cui i cinesi sono esentati, e devono depositare cospicue somme, parimenti non richieste ai cinesi, per ottenere prestiti. Ai cinesi sono inoltre assegnati i migliori punti vendita e i prodotti tibetani sono plagiati e venduti sotto costo nel tentativo di metterli fuori mercato. Spesso gli agricoltori sono costretti a vendere i loro prodotti al governo a prezzi inferiori a quelli di mercato con il conseguente aumento della povertà contadina e le famiglie devono fornire manodopera coatta per progetti di sviluppo che spesso non recano alcun vantaggio ai tibetani. La discriminazione è evidente anche nei salari percepiti, a parità di lavoro, da cinesi e tibetani. Nortso, 29 anni, nel gennaio 2000 ha riferito che a Ngamring, prefettura di Shigatse, i tibetani impiegati nelle costruzioni stradali venivano pagati 15-25 yuan al giorno, contro i 40-80 dei cinesi. Quando lavorava nella costruzione di un ufficio per le telecomunicazioni, Nortso riceveva solo 10 yuan al giorno, mentre i cinesi ne guadagnavano 50.
LA SALUTE
Il Libro Bianco cinese sui Diritti Umani del febbraio 2000 afferma che in Cina tutti i cittadini hanno diritto a ôservizi medici gratuiti e a un sistema previdenziale di cure mediche per i lavoratori a carico dello statoö. I rifugiati testimoniano invece che le cure mediche sono a pagamento, spesso in modo discriminatorio. Molti hanno rivelato di avere dovuto pagare le medicine a un prezzo maggiorato e che ai nomadi analfabeti sono prescritti farmaci scaduti o sbagliati. Inoltre sono negate le cure mediche ai tibetani che riportano ferite in seguito ad attività che le autorità considerano ôpoliticheö.
Per il ricovero in ospedale, i pazienti tibetani devono inoltre versare un deposito che varia da 2.000 a 5.000 yuan. Anche se rimborsabile, in molti casi l’importo del deposito risulta proibitivo. Nel 1998, la somma richiesta, pari a 5.000 yuan, era cinque volte superiore al reddito annuo netto della popolazione rurale e pari al reddito pro capite dei residenti urbani. Secondo numerosi rapporti, al mancato pagamento segue la negazione del ricovero e la morte del paziente per mancanza di cure. I cinesi, per contro, non devono pagare nulla.
Preoccupa soprattutto la violazione dei diritti riproduttivi delle donne tibetane. Tutti i tibetani, indipendentemente dalla regione d’origine, età o professione, sono soggetti a un rigido controllo delle nascite affinché siano rispettate le quote ufficiali stabilite. In Tibet, il numero dei figli è importante perché i tibetani, soprattutto nelle campagne, hanno bisogno di famiglie numerose per sopravvivere. Le donne che hanno avuto due figli sono obbligate a farsi sterilizzare, spesso con interventi sommari, in alcuni casi mortali. Le tibetane sono costrette ad abortire anche al settimo od ottavo mese di gravidanza, in molti casi senza anestesia. Spesso, di fronte alla minaccia di multe salate o di altre gravi sanzioni, non hanno altra scelta. Queste norme sono applicate malgrado il livello della mortalità infantile tra i tibetani sia tre volte superiore a quello registrato nel territorio cinese. Anche in Cina le donne devono sottostare al controllo delle nascite, ma in Tibet, data la scarsa densità della popolazione e in considerazione del fatto che il suo tasso di crescita è inferiore ai limiti fissati dal governo, tale misura non pu? essere vista che come una forma di discriminazione e un tentato genocidio.
L’ ISTRUZIONE
La stragrande maggioranza dei bambini tibetani pu? frequentare la scuola solo per pochi anni. Poi la devono abbandonare a causa delle spese esorbitanti, della discriminazione in favore dei cinesi o anche solo perché gli allievi non sono in grado di seguire le lezioni in lingua cinese. Numerosi rapporti confermano che agli studenti tibetani è negato l’accesso alle scuole migliori e all’educazione superiore perché i posti disponibili sono riservati ai cinesi o a figli di funzionari tibetani che lavorano per il governo. Inoltre gli studenti cinesi ricevono, in classe, un insegnamento preferenziale.
I cinesi stessi ammettono che il 30% dei bambini tibetani in età scolare non riceve alcuna istruzione (contro una percentuale dell’1,5% dei bambini cinesi), a causa delle tasse scolastiche proibitive imposte dalle autorità di Pechino e considerate ôinapplicabiliö nei confronti degli studenti cinesi. Gli studenti riferiscono inoltre che agli esami di ammissione i tibetani devono conseguire voti più alti e che, per assicurarsi la prosecuzione degli studi, la corruzione è una prassi comune.
Un’ulteriore discriminazione è rappresentata dallo stanziamento di fondi speciali per le scuole cinesi, mentre nelle aree rurali (dove vive più dell’88% delle famiglie tibetane) le comunità locali sono obbligate a costruire le scuole e a finanziare l’istruzione a proprie spese. L’impostazione culturale dei corsi è tendenziosa e durante gli esami vengono poste domande ideologiche e politiche. Le autorità della Regione Autonoma hanno affermato in modo esplicito che ôl’essenza del compito educativo e l’unica ragione d’essere dell’istruzione della minoranza nazionale è quella di crescere sostenitori e divulgatori qualificati della causa socialistaö. Inoltre i bambini sono indottrinati costantemente sulla grandezza dei capi della Cina comunista.
LA CASA
Allo scopo di garantire un alloggio all’alto numero di immigrati cinesi, i centri urbani hanno subito consistenti trasformazioni architettoniche e oggi molti tibetani vivono nella minaccia di sfratti e demolizioni o di restare senza casa.
La discriminazione nell’assegnazione degli alloggi avviene in quanto agli immigrati cinesi arrivati a Lhasa è garantita un’abitazione e nelle agenzie preposte all’assegnazione delle case la corruzione è ampiamente diffusa. Ogni informazione circa nuove abitazioni è tenuta riservata all’interno della cerchia cinese e, di conseguenza, i tibetani non sono al corrente sulle possibili disponibilità. Anche gli affitti spesso sono troppo cari per essere accessibili.
Molti tibetani riferiscono di essere stati sfrattati in modo arbitrario perché l’edificio era stato definito ônon sicuroö o non corrispondente ai parametri cinesi di ôbellezzaö. Molti proprietari non sono risarciti e sono trasferiti in condomini, in appartamenti più piccoli e con affitti più cari, o addirittura rispediti nei villaggi d’origine. Una ricerca approfondita ha rivelato che i nuovi edifici sono di qualità inferiore, quanto a dimensioni, fornitura d’acqua, scarichi, elettricità e fognature, rispetto alle case tradizionali tibetane.
La discriminatoria distribuzione dei contributi per le abitazioni fa sì che i cinesi fruiscano di servizi migliori, come acqua, elettricità e servizi sanitari appropriati, negati ai tibetani. Assieme al sistema di assegnazione degli alloggi, questa politica si traduce in una segregazione residenziale che vede gli spartani quartieri tibetani soffocati da quelli più nuovi e più grandi destinati ai cinesi. La situazione dei contadini tibetani è anche peggiore poiché più del 70 % di tutti i sussidi abitativi è destinato alle aree urbane della Regione Autonoma. Inoltre, il governo discrimina i tibetani limitando drasticamente la possibilità di trasferimento in città dei tibetani residenti nelle zone agricole, mentre permette agli immigrati cinesi non residenti di spostarsi liberamente. Al contrario dei cinesi, i tibetani sono soggetti a controlli costanti del permesso di residenza.
RAPPRESENTATIVIT? PUBBLICA
Anche se, nella Regione Autonoma, il 48% dei funzionari che dirigono i dipartimenti regionali o di livello superiore è costituito da tibetani, questo dato non è indicativo di una classe di governo rappresentativa. Si controlla con molta attenzione che tutti i tibetani impiegati siano ôpoliticamente pulitiö, puliti da qualsiasi idea opposta alla politica del Partito. La Cina concede ai tibetani il diritto di votare ed eleggere i capi politici della Regione Autonoma, ma il popolo tibetano non pu? proporre i propri candidati che sono invece tutti scelti in anticipo dalle autorità cinesi e sono membri del Partito o filo cinesi.
Ai funzionari è proibito sostenere il Dalai Lama o qualsiasi attività a favore dell’indipendenza. Devono essere d’accordo con la versione cinese della storia tibetana e non devono avere nessun parente monaco o monaca, nemmeno in una sola contea. Nonostante questi controlli, i funzionari sono comunque soggetti a perquisizioni domiciliari arbitrarie e sul lavoro subiscono la presenza di ôosservatoriö cinesi che ne sorvegliano le decisioni. Nella Regione Autonoma, la lingua parlata da chi ricopre incarichi ufficiali è solo quella cinese. Di conseguenza, alla maggioranza dei tibetani è impedito accedere e partecipare alla vita politica.
TRASFERIMENTO DELLA POPOLAZIONE
Il massiccio trasferimento di popolazione in Tibet, incoraggiato dal governo, non solo viola i diritti dei tibetani, ma minaccia direttamente la loro sopravvivenza e la loro peculiare cultura.
Documenti del Partito Comunista rivelano che, oltre a fornire nuove aree di insediamento alla crescente popolazione cinese, la politica del trasferimento è stata adottata per indebolire la resistenza tibetana e controllare i dissidenti.
Oggi i tibetani sono una minoranza nel loro stesso paese. Secondo le stime del governo tibetano in esilio, i tibetani in Tibet sono circa 6 milioni, contro 7,5 milioni di non-tibetani. La disparità continua ad aggravarsi poiché i rifugiati fuggono dal Tibet e i cinesi continuano ad affluire nel paese. I cinesi in Tibet dominano la vita commerciale, politica e sociale e sopravanzano numericamente i tibetani nelle prefetture e contee non comprese nella Regione Autonoma. La popolazione a Lhasa è passata dai 30.000 abitanti del 1959 ai circa 200.000 di oggi. Di essi, un numero compreso tra il 60 o 70% sono cinesi.
La repressione religiosa in Tibet
ôIn Tibet, la persecuzione religiosa è strettamente legata alla repressione del dissenso politico. La grande maggioranza dei prigionieri politici tibetani conosciuti da Amnesty International sono monache e monaci buddisti.ö
Amnesty International
Essendo il buddismo uno degli aspetti più importanti dell’identità nazionale e culturale tibetana,
l’ostilità cinese nei confronti della religione è determinata, in Tibet, dal timore che attorno ad essa si cementi il sentimento di unità nazionale dei suoi abitanti. Il governo cinese reprime inoltre la libertà di culto in quanto, conferendo la religione al Dalai Lama lo status di leader spirituale e temporale del popolo tibetano, i credenti obbediscono al Dalai Lama e alla sua politica che il governo di Pechino apertamente rifiuta.
Tutti questi fattori fanno del buddismo tibetano il simbolo del nazionalismo del popolo del Tibet e, di conseguenza, è considerato dalle autorità cinesi ôdistruttivo e controversoö. Per le autorità di Pechino, il problema religioso è un problema politico e le sue istituzioni sono considerate centri di ribellione che devono essere soppresse.
LA REPRESSIONE RELIGIOSA
La campagna di repressione religiosa iniziata dalla Repubblica Popolare Cinese nei confronti delle istituzioni religiose tibetane non accenna a diminuire malgrado la Cina continui a sostenere di fronte alla comunità internazionale che i tibetani godono di libertà di religione.
Nel ôLibro Bianco sui Diritti Umani in Tibetö, redatto nel 1998, la Cina così asseriva:
ôla Costituzione cinese stabilisce che la libertà di un credo religioso è uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Il governo cinese rispetta e protegge il diritto di libertà di credo religioso dei suoi cittadini.ö
La legge cinese stabilisce inoltre che i funzionari che privano i cittadini di questa libertà sono soggetti a due o più anni di reclusione. Ad oggi, tuttavia, nessun funzionario è stato accusato di questo crimine, malgrado le palesi violazioni della libertà di culto.
Al contrario, lo stesso il governo cinese attua politiche e programmi miranti alla soppressione del diritto dei tibetani a praticare la propria religione. Tra questi, ad esempio, la campagna chiamata ôColpisci Duroö, destinata a colpire severamente le istituzioni religiose.
Da quando l’Esercito di Liberazione del Popolo è entrato in Tibet, nel 1949, oltre 6000 tra istituzioni religiose e monumenti sono stati distrutti nel tentativo di ôriunire il Tibet alla madrepatriaö.
Sebbene alcuni monasteri siano stati ricostruiti e a monaci e monache sia stato ôpermessoö di praticare il buddismo, il diritto alla libertà di credo è stato severamente limitato. Le istituzioni ricostruite con l’assistenza dei cinesi sono solitamente solo quelle accessibili ai turisti o quelle più conosciute. Per fare un esempio, la facciata del monastero di Drepung, a Lhasa, è stata magnificamente ricostruita ma le strutture interne sono ancora in rovina.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia continua a documentare la diffusa repressione di libertà di religione in Tibet.
Da quando la Cina lanci?, nell’aprile del 1996, la campagna nazionale ôColpisci Duroö contro le istituzioni religiose tibetane, continua la sistematica repressione della libertà di credo. Ai monaci e alle monache è completamente negata ogni libertà di espressione e a centinaia sono stati espulsi dai monasteri o arrestati per aver disubbidito agli ordini.
I diritti culturale e religiosi sono internazionalmente riconosciuti come diritti umani. L’appartenenza di questi diritti alla legge internazionale sta a significare che il loro rispetto riguarda l’intera comunità mondiale. Il diritto di libertà di credo è contenuto nell’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e per questo è applicabile a tutte le nazioni.
LA CAMPAGNA DI ôRI - EDUCAZIONE PATRIOTTICAö
Nel tentativo di sopprimere le ôattività separatisteö, nell’aprile del 1996 la Cina lanci? la campagna ôColpisci Duroö, un programma di ôri-educazione patriotticaö applicato a tutte le istituzioni religiose in Tibet.
I ôgruppi di lavoroö, composti principalmente da funzionari dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza (PSB), svolgono minuziose sessioni di ri-educazione. Il loro compito principale consiste nell’identificazione, nell’espulsione o nell’arresto di monaci e monache considerati ônon patriotticiö, di coloro che esprimono una qualsiasi opinione contraria alla politica del partito o che non sono d’accordo con i cinque punti che tutti i monaci e monache sono costretti a sottoscrivere.
Questi i cinque punti sono da rispettare:
À Dichiarare la propria opposizione a ogni forma di separatismo
À Accettare la versione cinese della storia del Tibet
À Riconoscere il Panchen Lama designato da Pechino
À Negare lo status indipendente del Tibet
À Denunciare il Dalai Lama come ôtraditore della madrepatriaö
Secondo alcuni testimoni, per convincere i monaci e le monache della bontà delle loro idee, i ôgruppi di lavoroö, durante le sessioni di ri-educazione, non esitano a ricorrere alla violenza. I dissensi aperti di solito portano all’arresto.
Dall’inizio della campagna, più di 10.569 monaci sono stati espulsi dai loro monasteri e, al giugno 1999, almeno 511 risultano essere stati arrestati. Tra gli espulsi ci sono almeno 3.073 giovani monaci e monache al di sotto dei 18 anni.
Le monache del monastero Rating Samtenling, nella Contea di Phenpo Lhundrup, sono state sottoposte alla campagna di ri-educazione dal luglio del 1998. I funzionari del ôgruppo di lavoroö setacciarono le abitazioni di tutte le monache e le costrinsero a firmare documenti di denuncia del Dalai Lama e ad accettare ôl’unità della madrepatriaö.
A seguito del rifiuto delle monache a firmare questi atti, le sessioni ri-educative furono prolungate di due mesi. Alle monache fu limitato qualsiasi contatto con i propri famigliari e non fu loro consentito di andare in visita a casa.
Ottanta monache che si rifiutarono di conformarsi alle istruzioni ricevute furono soggette ad ulteriori restrizioni e fu loro proibito di partecipare alle funzioni religiose. Quattordici monache furono espulse e solo centocinque furono lasciate nel monastero.
Precise istruzioni delle autorità cinesi sancirono la chiusura di tutti i centri religiosi coinvolti in agitazioni politiche. Per questa ragione furono chiusi quindici monasteri.
Nel luglio del 1998, un ôgruppo di lavoroö composto da dieci funzionari visitò il monastero di Gonsar nella Contea di Lhundup (completamente demolito durante la Rivoluzione Culturale e ricostruito nel 1991 con il contributo dei tibetani locali) e diede inizio alla ôri-educazione patriotticaö dei venti monaci che vi risiedevano.
I monaci rifiutarono in modo deciso di ubbidire agli ordini affermando di essere dei religiosi e di non poter contravvenire alle regole della propria fede. Malgrado le obiezioni, i funzionari cinesi insistettero nella loro opera di persuasione incontrando la continua opposizione dei monaci.
Alla fine il ôgruppo di lavoroö annunci? che il monastero sarebbe stato chiuso e che tutti i monaci avrebbero dovuto far ritorno alle rispettive abitazioni. Verso la fine dell’agosto 1998, i venti monaci fecero ritorno ai loro villaggi e il monastero fu chiuso. Ai religiosi fu inoltre impedito di entrare in altri monasteri o di praticare servizi di preghiera nelle loro case.
Il 20 marzo 1998, una trentina di funzionari del PSB visitarono il convento di Draylb, a Lhasa. Secondo quanto riferito da una ex monaca, Tenzin Dolma, su un totale di centocinquanta monache residenti, solo le piccole religiose di età non superiore ai cinque anni ebbero il permesso di restare. Tutte le altre furono espulse dopo che le monache, in pellegrinaggio a Lhasa per le festività dell’anno nuovo, si rifiutarono di tornare al convento e di rinnegare il Dalai Lama.
I funzionari distrussero tutte le camere delle monache e rimossero i pilastri di legno e le intelaiature delle finestre.
IL TOTALE CONTROLLO SULLE ATTIVITA’ RELIGIOSE
Dall’inizio della campagna di ôri-educazione patriotticaö, i funzionari cinesi dei ôgruppi di lavoroö continuano a limitare le attività religiose dei monasteri e conventi. Scopo della campagna è di controllare la religione attraverso il controllo delle menti dei religiosi tibetani.
Nel giugno 1994, il Terzo Forum Nazionale del Lavoro in Tibet decise un maggior rigore nei confronti delle istituzioni monastiche. A questo scopo furono istituiti all’interno di ogni monastero dei ôComitati di Gestione Democraticaö, destinati a sostituire l’autorità tradizionale degli abati e dei lama. Le autorità di stato affidarono a questi comitati l’incarico di decidere in merito all’ammissione nel monastero, al programma di studi e alla disciplina dei monaci e monache.
Oggi, i monasteri e i conventi sono sotto il controllo dei ôgruppi di lavoroö cinesi, mandati per indagare sui dissensi e per portare avanti le sessioni rieducative.
Centinaia di monaci e monache sono stati arrestati per attività politiche. E’ considerata ôattività politicaö anche il solo possesso di foto del Dalai Lama, loro leader spirituale.
Molti altri continuano ad essere espulsi dai propri monasteri e conventi. Tenpa Rabgyal, un monaco di 27 anni del monastero di Tash-Ge-Kunphel Ling, fu arrestato nel febbraio del 1998 per aver scritto delle preghiere auguranti lunga vita a sua Santità il Dalai Lama.
Le sessioni di educazione politica sono lunghe e interferiscono pesantemente negli studi dei monaci e delle monache. Inoltre, è stata abolita la tradizionale lettura delle sacre scritture all’interno delle case tibetane e deve essere richiesto uno speciale permesso per alcuni insegnamenti. Il governo controlla dove e come avvengono le cerimonie religiose. I ritratti del Dalai Lama, già banditi all’interno delle istituzioni religiose, sono ora vietati anche nelle case private.
Ai tibetani è stato proibito di celebrare il compleanno del Dalai Lama. Una settimana prima del 64? compleanno di Sua Santità, le autorità cinesi hanno distribuito volantini che rendevano esplicito tale divieto. La celebrazione del compleanno del Dalai Lama è considerata un atto di propaganda separatista e un’istigazione delle masse ad opporsi al governo cinese.
Molti monaci e molte monache sono stati allontanati dalle istituzioni religiose a causa del ôtettoö numerico massimo introdotto dai membri dei ôgruppi di lavoroö. Questa misura restrittiva fissa il numero di monaci/monache consentiti all’interno di ogni monastero o convento. Inoltre, le autorità cinesi hanno introdotto disposizioni riguardanti il limite massimo e minimo di età dei religiosi decretando l’espulsione dei monaci di età inferiore ai 18 anni e superiore ai 50. L’allontanamento forzato dei religiosi al di sopra dei cinquant’anni minaccia la sopravvivenza della tradizione del buddismo tibetano poiché gli anziani hanno un ruolo fondamentale nella trasmissione degli insegnamenti.
LA PROIBIZIONE DEL DIRITTO DI PRATICARE LA RELIGIONE IN CARCERE
L’arresto dei prigionieri politici non costituisce soltanto una punizione. Per le autorità cinesi è anche il mezzo per tentare di annullare il sentimento di identità tibetana. A questo fine, ai monaci detenuti è proibita la pratica della religione e spesso viene loro imposto l’obbligo di denunciare il Dalai Lama, loro leader politico e spirituale. Mentre i tibetani, nella vita di tutti i giorni, subiscono forti limitazioni nella pratica della religione, nelle prigioni cinesi esiste il divieto assoluto di qualsiasi forma di culto.
I monaci e le monache in prigione sono costretti a farsi crescere i capelli, non è loro permesso di prosternarsi né di indossare gli abiti religiosi. Il semplice atto di pregare ad alta voce è proibito e le punizioni per aver rotto questa æregola del silenzio’ includono abusi fisici e verbali.
Gyaltsen Pelsang, una monaca arrestata all’età di 13anni, ha dichiarato: ôSe, in carcere, recitavamo mantra o altre preghiere, eravamo immediatamente picchiatiö.
La religione è una delle più potenti espressioni della cultura del Tibet e la sua pratica è molto importante per i prigionieri tibetani dei quali molti sono monache e monaci
Le condizioni economiche dei tibetani in Tibet
Il governo cinese ha ripetutamente ribattuto alle critiche sul tema dei diritti umani in Tibet ponendo l’accento sullo sviluppo e la crescita economica conseguiti negli ultimi decenni. Tale argomentazione viene ripresa anche in un libro bianco sui diritti umani pubblicato il 17 febbraio 2000, in cui nuova enfasi viene data al diritto allo sviluppo : ôà in termini di priorità, viene data la massima precedenza al diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppoö .
Questo fascicolo analizza alcuni aspetti del cosiddetto ôsviluppo del Tibetö e in che misura il diritto ai mezzi di sussistenza ed allo sviluppo siano ôgarantitiö al popolo Tibetano.
Un crescente numero di rifugiati fuggiti dal Tibet e le loro testimonianze indicano che c’è stata una effettiva crescita economica del Tibet, specialmente nelle aree urbane, ma che di questa crescita hanno beneficiato principalmente i coloni cinesi.
Ci? è confermato dalle cifre ufficiali fornite dai cinesi che mostrano come i residenti nelle aree urbane costituiscano il 23,7% della popolazione totale della Regione Autonoma del Tibet (ôTARö) mentre meno del 5% dei Tibetani vive in quelle stesse aree. Inoltre la spesa pubblica destinata agli abitanti delle aree urbane è di 29 volte superiore a quella destinata ai residenti nelle aree rurali.
Inoltre, fra il 1991 ed il 1996, nelle zone urbane l’incremento del reddito annuo [pro capite] è stato del 250% rispetto ad un incremento nelle zone rurali solo del 50% nello stesso periodo.
La povertà dilaga fra i tibetani residenti nelle aree rurali e, nel Tibet Centrale, circa 300.000 famiglie vivono sotto la soglia di povertà che, secondo la definizione ufficiale del governo cinese, si applica a persone con un reddito annuo pro capite di meno di 650 yuan (USD 80). Peraltro, utilizzando lo standard internazionale di povertà di 1 dollaro al giorno, praticamente tutte le zone rurali del Tibet vivono sotto la soglia della povertà.
I PROGETTI DI SVILUPPO
Nel 1994 fu lanciata da Pechino una importante campagna per ôspalancare le porte del Tibet alle zone interne del paeseö e incoraggiare ôcommercianti, investimenti, aziende e privati a spostarsi dalla Cina al Tibet Centrale per avviare ogni genere di iniziativa imprenditorialeö.
Nell’ambito di questa strategia furono approvati 62 progetti di sviluppo, molti dei quali concentrati nelle zone urbane e solo 9 dedicati all’istruzione ed alla salute.
I grandi e costosi progetti, quali dighe e strade, non hanno alcuna influenza positiva sulla popolazione locale. In realtà molto del denaro speso per i progetti è prosciugato dai costi amministrativi del progetto stesso. Una larga percentuale dei progetti è poi destinata al fallimento a causa della cattiva gestione o dell’inadeguata pianificazione e ci? non porta alcun beneficio ai tibetani.
Inoltre, la preferenza accordata a progetti di vasta portata che riguardano infrastrutture, attività di estrazione mineraria o aziende di proprietà dello stato, incoraggiano l’afflusso di personale cinese in Tibet. I lavoratori cinesi ricevono spesso salari che sono tre o quattro volte più alti rispetto a quelli delle altre province. I tibetani vengono raramente assunti e rappresentano solamente il 5-10% della forza lavoro impiegata nei progetti e nelle industrie sotto il controllo cinese.
Tamdin Tsering , 21 anni, originario della contea di Machu, il 20 gennaio 2000 riferì che su 23.000 lavoratori della miniera di oro di Zoege Nyima, solamente 45 erano Tibetani. Un’altra fonte, un uomo di 20 anni dal Kham che preferisce restare anonimo, fornì particolari circa un progetto riguardante una centrale idroelettrica a Mira Dotse, il cui contratto di costruzione fu affidato a una società cinese che assunse lavoratori sia cinesi che tibetani. La retribuzione degli operai cinesi era di 20 yuan al giorno mentre la retribuzione dei tibetani era di 10 yuan al giorno.
Molti rifugiati tibetani riferiscono che non venivano impiegati nei principali progetti di sviluppo ma che veniva loro richiesto di contribuire a quegli stessi progetti con lavoro non retribuito, tasse assurde o con la loro terra.
IL LAVORO OBBLIGATORIO
Il lavoro forzato viola leggi internazionali applicate da lungo tempo.
Tuttavia il programma di riduzione della povertà adottato da Pechino pone un particolare accento sullo ôsfruttamento del potenziale esistente per favorire lo sviluppo delle aree più povereö.
Ci? è in buona parte ottenuto attraverso il lavoro pubblico o ôyigong daizhenö che significa ôoffrire lavoro invece di [aiuto]ö. Il programma si concentra su numerosi progetti di miglioramento delle infrastrutture, quali la costruzione di strade e impianti o la ristrutturazione di attrezzature e la tutela delle acque.
La maggior parte dei rifugiati arrivati di recente in India e Nepal riferiscono che a tutti i tibetani di ogni parte del Tibet viene richiesto un mese di lavoro obbligatorio ogni anno con pesanti ammende per coloro i quali non si presentano.
Samdup, un nomade di 30 anni dalla contea di Saga, prefettura di Shigatse (TAR), arrivato in Nepal l’11 gennaio 2000, riferisce che tutti gli abitanti della sua zona di età compresa fra i 16 e i 58 anni erano obbligati a lavorare alla costruzione di una strada senza essere pagati. Agli uomini sono imposti 25 giorni di lavoro obbligatorio l’anno mentre alle donne 15 giorni. Ci sono multe per le assenze.
ôSe hai più di 18 anni e meno di 60, nell’arco di un anno devi fare più di 20 giorni di lavoro obbligatorio" diceDawa, un agricoltore di 18 anni dalla contea di Kyirong, prefettura di Shigatse (TAR) che è arrivato a Dharamsala il 25 gennaio 2000. ôSe sei malato puoi stare a casa ma devi poi completare il lavoro pattuito. E’ possibile mandare qualcun altro al tuo posto. Il supervisore del lavoro obbligatorio è cinese. Se non lavori sodo vieni ripreso. Il lavoro inizia alle 10.00 del mattino e prosegue fino alle 8.00 di sera. Non ci sono pause tranne un’ora per il pranzoö.
GLI ESPROPRI
Oltre al lavoro obbligatorio, a molti tibetani viene chiesto di contribuire allo ôsviluppoö del Tibet con la propria terra. Quando i progetti di sviluppo necessitano di terreni agricoli, questi vengono espropriati ad agricoltori e pastori, che non vengono risarciti, con la giustificazione che la terra appartiene al governo cinese.
La giurisprudenza internazionale riconosce il diritto all’indennizzo nei casi in cui il governo subentri nella proprietà. Dunque, anche se la Repubblica Popolare Cinese pu? espropriare terreni per scopi pubblici, dovrebbe pagare agli agricoltori un prezzo equo e giusto. Il mancato rispetto di questa norma viola le leggi internazionali.
Un uomo di 22 anni di Gyantse denuncia di aver perso metà della sua terra a causa della costruzione di un fabbrica di materiale plastico. La costruzione della fabbrica era iniziata nel 1997 e il suo completamento era previsto per il 2000. Circa 20 famiglie (o metà dei contadini) hanno perso tutto il loro terreno. Nessuno è stato risarcito perché il governo ha sostenuto che la terra apparteneva al partito comunista.
LE TASSE IMPOSTE AI TIBETANI
Una quota elevata della produzione e del reddito dei tibetani ritorna al governo cinese sotto forma di tasse di ogni genere. Gli immigrati cinesi sono dispensati dal pagamento della maggior parte di queste tasse mentre il carico fiscale cresce per i tibetani quanto più aumenta il numero dei progetti di sviluppo.
Le autorità cinesi hanno fatto ispezioni, suddiviso e inutilmente recintato la terra. I costi di tutto questo lavoro sono stati fatti pagare agli agricoltori e ai pastori.
La tassa più comune è una parte del raccolto degli agricoltori. Rinchen, di Rebkong, nell’Amdo, riferisce che alla sua famiglia è stato richiesto di pagare metà del raccolto ai cinesi. Wongchen Nyendar, 19 anni, di Dwerlung, ha riferito al Centro Tibetano per i Diritti Umani e la democrazia (TCHRD) che alla sua famiglia, che coltiva orzo e possiede tre mucche ed uno yak, è richiesto di pagare una tassa di 150 chilogrammi di orzo l’anno a persona.
L’IMPATTO DEI PROGETTI DI SVILUPPO
La logica del governo cinese in Tibet ha le stesse caratteristiche di quella utilizzata dalle potenze occidentali durante il periodo coloniale: i paesi più sviluppati invadono i paesi sottosviluppati per portare loro progresso e sviluppo. Certamente i ôprogetti di sviluppoö cinesi hanno portato dei cambiamenti in Tibet, ma quando parliamo di ôprogressoö dobbiamo sempre tenere presente cosa significa progresso, chi ne beneficia e chi, per esso, paga.
I vasti e costosi progetti volti alla costruzione di strade e dighe, hanno conseguenze negative sul fragile ecosistema tibetano e pochi effetti sulle vite della gente comune. Le strade sono molto utili all’esercito cinese e ai coloni cinesi che arrivano ogni giorno in Tibet attratti dagli incentivi del governo. Inoltre, facilitano lo sfruttamento delle risorse naturali del Tibet. Le strade esistono ma non ci sono sistemi di trasporto pubblico perché la popolazione locale possa beneficiarne.
La Commissione Internazionale dei Giuristi riferisce: ôI mezzi di sussistenza di molti Tibetani, che vivono in piccole comunità rurali, sono stati trascurati, in quanto beneficiano poco dei massicci investimenti cinesi. Questo rapporto dimostra che la povertà relativa dei tibetani, lo sfruttamento delle risorse tibetane per contribuire allo sviluppo della Cina, l’insediamento di un considerevole numero di cinesi nei nuovi centri urbani hanno conseguenze negative sulle comunità tibetaneö.
I rapporti Cina/Tibet hanno molte caratteristiche della dominazione coloniale, con lo sfruttamento delle risorse naturali della colonia a beneficio del paese colonizzatore.
Ci? crea stagnazione economica, promuove l’inefficienza e crea le condizioni di dipendenza che riducono di fatto gli sforzi di sviluppo a livello locale.
Dallo sfruttamento delle risorse naturali alle decisioni chiave in termini di politiche locali e regionali, i tibetani sono esclusi, ad ogni livello, dalla partecipazione allo sviluppo del loro paese e dalle decisioni sul futuro economico del Tibet.
La violazione dei diritti delle donne in Tibet
I diritti fondamentali delle donne tibetane continuano ad essere violati dal punto di vista politico, culturale, economico, sociale nonché da quello dell’integrità fisica.
Le donne tibetane, spesso monache, continuano ad essere arrestate arbitrariamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di opinione ed espressione e, in carcere, sono soggette a maltrattamenti e torture. Spesso sono anche costrette a subire contro la loro volontà la pratica della sterilizzazione forzata o pratiche di contraccezione o aborto forzati.
La Cina, nel 1980, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne.
La legislazione nazionale cinese nonché gli obblighi assunti a livello internazionale non sono comunque serviti a difendere i diritti delle donne tibetane in Tibet. In realtà il governo cinese prosegue nella sua premeditata e sistematica politica di discriminazione e violenza contro le donne tibetane.
LE DONNE DETENUTE
Le donne tibetane hanno sempre avuto un ruolo attivo nel sostegno e la difesa dei diritti umani e della libertà. Sin dall’occupazione del Tibet nel 1959, le donne e in particolare le monache sono state a capo di pacifiche dimostrazioni che chiedevano la fine della repressione cinese.
Il 26% dei prigionieri politici detenuti nelle prigioni cinesi in tutto il Tibet sono donne. Al dicembre 1999 si aveva notizia di 615 prigionieri politici di cui 162 donne. L’80% delle donne detenute sono monache.
Le condizioni delle donne in prigione sono di gran lunga al di sotto di quelle che possono essere definite condizioni umane di detenzione secondo gli standard internazionali. Alle donne non vengono forniti assorbenti igienici per le mestruazioni e la situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che non è consentito lavarsi per lunghi periodi. Sono inoltre sottoposte a lavori forzati, esercitazioni obbligatorie ed altre crudeli forme di tortura sia fisica che psichica.
Le donne tibetane, per nulla scoraggiate dalle brutali torture, hanno continuato ad inscenare proteste contro le autorità cinesi anche durante la detenzione. Il 1 maggio (Festa del Lavoro) ed il 4 maggio (Giornata della Gioventù) 1998, i prigionieri della prigione di Drapchi hanno inscenato una protesta al momento della cerimonia dell’alzabandiera. I dimostranti furono immediatamente circondati dalle forze della Polizia Popolare Armata e furono tutti picchiati senza fare distinzioni, comprese le monache che avevano partecipato alla protesta. La cerimonia venne interrotta e tutte le monache del 3? blocco, circa 100 in totale, subirono gravi ferite e molte sanguinavano. Le autorità rinchiusero in cella di isolamento 20 monache prese a caso, a tre di loro fu prolungata la condanna mentre altre rimasero in isolamento per sette mesi.
Ngawang Sangdrol, rilasciata nell’ottobre 2002, fu arrestata per la prima volta nel 1987, all’età di 10 anni e trattenuta per 15 giorni per aver partecipato ad una dimostrazione. In seguito fu nuovamente arrestata il 28 agosto 1990 all’età di 13 anni e trattenuta agli arresti per 9 mesi. Prima del suo rilascio, stava scontando una condanna che risaliva al 17 giungo 1992, giorno in cui fu arrestata per aver tentato di inscenare a Lhasa una protesta a favore dell’indipendenza. La sua condanna era stata successivamente prolungata tre volte: nel giugno 1993, nel giugno 1996 e nell’ottobre 1998 a seguito della protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. Ngawang Sangdrol era stata individuata e sottoposta a trattamenti particolarmente duri e spesso rinchiusa in isolamento. Le sue condizioni di salute sono estremamente fragili.
IL BRUTALE TRATTAMENTO DELLE DONNE
Il Tibet Information Network (TIN), un’ agenzia di informazione indipendente ha verificato il trattamento dei Tibetani nelle prigioni cinesi ed ha rilevato che ôIl tasso di mortalità dei tibetani durante la reclusione o, come conseguenza della detenzione, poco dopo il loro rilascio, è in aumento. I prigionieri politici di sesso femminile e in particolare le detenute nella prigione di Drapchi a Lhasa, sono quelle esposte al maggior rischio. Il tasso di mortalità è pari al 5% circa o di 1 a 20.ö
Choeying Kunsang, arrivata dal Tibet nell’aprile 2000, descrisse dettagliatamente la protesta nel carcere di Drapchi del maggio 1998. La sua testimonianza è corredata da descrizioni molto vivide di percosse, violenze sessuali, periodi di isolamento anche di sette mesi, sessioni di ôallenamentoö ed episodi di torture che hanno condotto alla morte il prigioniero.