Il controverso bilancio dei caduti:
http://www.repubblica.it/2008/03/sezion ... abato.html
e una riflessione del "guru" Rampini sulla situazione in Tibet:
http://www.repubblica.it/2008/03/sezion ... enate.html
rampini è un personaggio abbastanza spregevole, dal mio punto di vista.
uno di quelli che da anni si diverte a dipingere il tibet come quel paradiso tanto in voga a hollywood.
metto giù alcune cosine interessanti, di fonte americana (ma non ideologiche come le cose propagandate da hollywood, rampini, i radicali e tutta la cricca del dalai lama c.i.a. compresa)
n’articolo del Washington Post del 1999 scriveva che il Dalai Lama continua ad essere riverito nel Tibet, ma. . . pochi tibetani accoglierebbero favorevolmente un ritorno dei clan aristocratici corrotti che sono fuggiti con lui nel 1959 e che compongono la massa dei suoi consiglieri. Molti contadini tibetani, per esempio, non hanno interesse nella cessione della terra che avevano ottenuto durante la riforma fondiaria della Cina, espropriata ai clan aristocratici feudali. Gli ex schiavi del Tibet dicono anche, che non desiderano che i loro precedenti padroni tornino al potere.
"Già ho vissuto una volta quella vita prima," ha detto Wangchuk, un ex schiavo di 67 anni con indosso i suoi vestiti migliori per il suo pellegrinaggio annuale a Shigatse, uno dei luoghi più sacri del buddismo tibetano. Ha detto che adorava il Dalai Lama, ma ha aggiunto, "non posso essere libero sotto comunismo cinese, ma la mia vita è migliore di quando ero uno schiavo."(51) Nel sostenere il rovesciamento cinese della teocrazia feudale del Dalai Lama non devo approvare ogni cosa fatta circa il ruolo cinese nel Tibet. Questo punto è capito raramente dagli odierni aderenti della Shangri-La nell'occidente.
La ridotta guarnigione dell’EPL in Tibet non avrebbe mai potuto catturare tutti loro, se non avesse ricevuto il sostegno dei tibetani che non sostennero la rivolta. Questo dimostra che la resistenza ha avuto una base piuttosto stretta dentro il Tibet. "Molti Lama e molti membri laici dell'elite e molti dell'esercito del Tibetan hanno sostenuto la rivolta, ma la maggioranza della popolazione non l’ha fatto e questo ha sancito il suo fallimento," scrisse Hugh Deane. (Hugh Deane, "The Cold War in Tibet," CovertAction Quarterly (Winter 1987).)
Nel loro libro sul Tibet, Ginsburg e Mathos raggiungono una conclusione simile: "Gli insorti del Tibetan non sono mai riusciti a raccogliere nei loro ranghi anche solo una consistente parte della popolazione, per non dire niente della maggioranza di essa. Per quanto pu? essere constatato, la gran parte della popolazione di Lhasa e della campagna contigua, non aderirono nonostante il tentativo di unirle nella lotta contro il cinese..."
Un colpo d’occhio alla storia rivela che le organizzazioni buddiste non fanno eccezione alle persecuzioni violente che hanno così caratterizzato i gruppi religiosi nel corso delle epoche storiche. In Tibet, dall’inizio del diciassettesimo secolo e sino al secolo successivo inoltrato, sette buddiste in conflitto si impegnarono in ostilità armate ed esecuzioni sommarie. (1) Nel ventesimo secolo, dalla Thailandia alla Birmania alla Corea al Giappone, i buddisti si sono scontrati fra loro e con i non buddisti. In Sri Lanka, enormi battaglie in nome del buddismo sono parte integrante della storia cingalese. (2)
Soltanto pochi anni fa, in Corea del Sud, migliaia di monaci dell’ordine buddista Chogye û che, secondo l’opinione generale erano dedicati ad una ricerca meditativa alla ricerca dell’illuminazione spirituale û si combatterono con pugni, pietre, bombe incendiarie, e randelli, in battaglie campali che continuavano per settimane. Stavano rivaleggiando per il controllo dell’ordine monastico, il maggiore della Corea del Sud, con il suo budget annuo di 9.2 milioni di dollari, i suoi milioni di dollari aggiuntivi in proprietà, e il privilegio di nominare 1700 monaci per mansioni varie. Le risse distrussero in parte i principali santuari buddisti e lasciarono dozzine di monaci feriti, alcuni dei quali in maniera seria
Entrambe le fazioni che lottavano per la supremazia ricercavano il sostegno della nazione. In effetti, i cittadini coreani sembravano disdegnare entrambe le parti, essendo dell’opinione che non aveva importanza quale consorteria avrebbe preso controllo di un ordine, poiché avrebbe comunque impiegato le donazioni dei fedeli per accumulare ricchezze, comprese case ed auto costose. Secondo un notiziario di cronaca, la confusione all’interno dell’ordine buddista Chogye (molta della quale portata sugli schermi televisivi coreani) : ôha mandato in frantumi l’immagine dell’Illuminismo Buddistaö. (3)
Ma molti buddisti odierni negli Stati Uniti farebbero obiezione, affermando che nulla di ci? si applicherebbe al caso del Dalai Lama e del Tibet da lui presieduto prima della spaccatura cinese del 1959. Il Tibet in cui credono, quello del Dalai Lama, era un mondo orientato verso un orizzonte spirituale, scevro da stili di vita egoistici, libero dal vuoto materialismo, da inutili ricerche e dai vizi corrotti che assediano la società moderna industrializzata. I media occidentali, insieme a uno stuolo di libri di viaggi, romanzi e film di Hollywood hanno dipinto la teocrazia tibetana come una vera Shangri-La e il Dalai Lama come un santo saggio, ôil più grande essere umano viventeö, come lo ha descritto con grandissimo entusiasmo l’attore Richard Gere. (4)
Lo stesso Dalai Lama ha dato adito a tali immagini idealizzate sul Tibet, mediante affermazioni come: ôLa civiltà tibetana ha una ricca e lunga storia. L’influenza persuasiva del buddismo e le asperità di una vita fra gli ampi spazi aperti di un ambiente incorrotto, ha avuto come risultato una società dedicata alla pace e all’armonia. Provavamo diletto nella libertà e nella contentezza, nell’essere paghi.ö (5)
Mala storia del Tibet appare un po’ diversa. Nel tredicesimo secolo, l’imperatore Kublai Khan cre? il primo Grande Lama, che avrebbe dovuto presiedere tutti gli altri Lama, così come farebbe un papa con i suoi vescovi. Parecchi secoli dopo, l’imperatore della Cina invi? un esercito in Tibet per sostenere il Grande Lama, un’ ambizioso venticinquenne che si autoconferì il titolo di Dalai (Oceano) Lama, signore di tutto il Tibet. Ecco un’ironia storica: il primo Dalai Lama fu investito della propria carica da un esercito cinese. Per elevare la sua autorità oltre la sfida mondana, temporale, il primo Dalai Lama confiscò monasteri che non appartenevano alla sua setta, e si crede anche che abbia distrutto scritti buddisti contrastanti con la sua pretesa di divinità.
Il Dalai Lama che gli successe ricercò una vita sibaritica ( ndt: termine che indica un eccesso di lusso e mollezza, ôdegno di un sibaritaö), da individuo raffinato e dedito ai piaceri, godendo di molte concubine, organizzando feste, scrivendo poesie erotiche e comportandosi in altri modi, che dovrebbero sembrare sconvenienti per una incarnazione degli dei.
Per questo la sua figura, in seguito è stata "oscurata" dai suoi monaci. In 170 anni, malgrado il loro stato riconosciuto come dei, cinque Lama di Dalai sono stato assassinati dai loro gran sacerdoti o da loro altri cortigiani non violenti buddistici. 7
fonte:(George Ginsburg and Michael Mathos Communist China and Tibet (1964), quoted in Deane, "The Cold War in Tibet."
Deane nota che Bina Roy arriva alla stessa conclusione)
in base a queste fonti americane quindi i tibetani non hanno mai appoggiato le rivolte dei monaci, non vogliono che il tibet torni in mano al dalai lama e soprattutto, pur non amando molto il governo cinese, affermano che ora stanno indubbiamente meglio di prima, potendo godere di tutti i servizi di prima necessità che prima erano loro negati
ma leggiamo chi è il dalai lama, attraverso le parole del nazista e suo amic harrer, quello che fece i 7 anni in tibet, mandato da hitler a scoprire le radici airiane dei ceppi razziali indo-europei.
Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del campione della lotta di ½liberazione del popolo tibetano?.
Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per l’esattezza nella provincia di Amdo che nel 1935, l’anno della nascita, era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del 13? Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un convento, per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità.
1. Un ½paradiso? raccapricciante
Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di semi-ufficialità (si conclude con il ½Messaggio? in cui il Dalai Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche i particolari più inquietanti. Nel 1946, Harrer incontra a Lhasa i genitori del Dalai Lama, dove si sono trasferiti ormai da molti anni, abbandonando la natia Amdo. E, tuttavia, essi non sono ancora divenuti tibetani: bevono il tè alla cinese, continuano a parlare un dialetto cinese e, per intendersi con Harrer, che si esprime in tibetano, hanno bisogno dell’aiuto di un ½interprete?. Certo, la loro vita è cambiata radicalmente: ½Era un grosso salto quello dalla loro piccola casa di contadini in una lontana provincia al palazzo che ora abitavano e ai vasti poderi che erano adesso di loro proprietà?. Avevano ceduto ai monaci un bambino di tenerissima età, che poi riconosce nella sua autobiografia di aver molto sofferto per questa separazione. In cambio, i genitori avevano potuto godere di una prodigiosa ascesa sociale. Siamo in presenza di un comportamento discutibile? Non sia mai detto. Harrer si affretta subito a sottolineare la ½nobiltà innata? di questa coppia (p. 133): come potrebbe essere diversamente, dato che si tratta del padre e della madre del Dio-Re?
Ma che società è quella su cui il Dalai Lama è chiamato a governare? Sia pure a malincuore, l’autore del libro finisce col riconoscerlo: ½La supremazia dell’ordine monastico nel Tibet è assoluta, e si pu? confrontare solo con una severa dittatura. I monaci diffidano di ogni influsso che possa mettere in pericolo la loro dominazione?. Ad essere punito non è soltanto chi agisce contro il ½potere? ma anche ½chiunque lo metta in dubbio? (p. 76). Diamo ora uno sguardo ai rapporti sociali. Si direbbe che la merce più a buon mercato sia costituita dai servi (si tratta, in ultima analisi, di schiavi). Harrer descrive giulivo l’incontro con un alto funzionario: anche se non è un personaggio particolarmente importante, egli pu? comunque disporre di un ½seguito di trenta servi e serve? (p. 56). Essi vengono sottoposti a fatiche non solo bestiali ma persino inutili: ½Circa venti uomini erano legati alla cintura da una corda e trascinavano un immenso tronco, cantando in coro le loro lente nenie e avanzando di pari passo. Ansanti e in un bagno di sudore non potevano soffermarsi per pigliare fiato, perché il capofila non lo permetteva. Questo lavoro massacrante rappresenta una parte delle loro tasse, un tributo da sistema feudale?. Sarebbe stato facile far ricorso alla ruota, ma ½il governo non voleva la ruota?; e, come sappiamo, contrastare o anche solo mettere in discussione il potere della casta dominante poteva essere assai pericoloso. Ma, secondo Harrer, non ha senso versare lacrime sul popolo tibetano di quegli anni: ½forse così era più felice? (pp. 159-160).
Incolmabile era l’abisso che separava i servi dai padroni. Per la gente comune, al Dio-Re non era lecito rivolgere né la parola né lo sguardo. Ecco cosa avviene nel corso di una processione:
½Le porte della cattedrale si aprirono e lentamente uscì il Dalai Lama [à] Devota la folla si inchinò immediatamente. Il cerimoniale religioso esigerebbe che la gente si gettasse per terra, ma era impossibile farlo a causa della mancanza di spazio. Migliaia di persone curvarono invece la schiena, come un campo di grano sciabolato dal vento. Nessuno osava alzare gli occhi. Lento e compassato il Dalai Lama inizi? il suo giro intorno al Barkhor [à] Le donne non osavano respirare?.
Finita la processione, il quadro cambia in modo radicale:
½Come ridestata da un sonno ipnotico la folla in quel momento passò dall’ordine al caos [à] I monaci-soldato entrarono subito in azione [à] All’impazzata facevano mulinare i loro bastoni sulla folla [à] Ma nonostante la gragnuola di colpi, i battuti ritornavano come fossero posseduti da demoni [à] Adesso accettavano colpi e frustate come una benedizione. Fiaccole di pece fumosa cadevano sulle loro teste, urla di dolore, qui un volto bruciato, là i gemiti di un calpestato!? (pp. 157-8).
Vale la pena di notare che questo spettacolo viene seguito dal nostro autore in modo ammirato e devoto. Non a caso, il tutto è contenuto in un paragrafo dal titolo eloquente: ½Un dio alza, benedicendo, la mano?. L’unico momento in cui Harrer assume un atteggiamento critico si verifica allorché egli descrive la condizione igienica e sanitaria del Tibet del tempo. Infuria la mortalità infantile, la durata media della vita è incredibilmente bassa, le medicine sono sconosciute, in compenso circolano farmaci assai singolari: ½spesso i lama ungono i loro pazienti con la propria saliva santa; oppure tsampa e burro vengono mescolati con l’urina degli uomini santi per ottenere una specie di emulsione che viene somministrata ai malati? (p. 194). Qui si ritrae perplesso anche il nostro autore devoto e bacchettone: se pure dal ½Dio-Ragazzo? è stato ½persuaso a credere nella reincarnazione? (p. 248), egli tuttavia non riesce a ½giustificare il fatto che si bevesse l’urina del Buddha Vivente?, e cioè del Dalai Lama. Solleva il problema con quest’ultimo, ma con scarsi risultati: il Dio-Re ½da solo non poteva combattere tali usi e costumi, e in fondo non se ne preoccupava troppo?. Ci? nonostante, il nostro autore, che si accontenta di poco, messe da parte le sue riserve, conclude imperturbabile: ½In India, del resto, era uno spettacolo giornaliero vedere la gente bere l’urina delle vacche sacre? (p. 294).
A questo punto, Harrer pu? procedere senza più impacci nella sua opera di trasfigurazione del Tibet pre-rivoluzionario. In realtà, esso è carico di violenza e non conosce neppure il principio della responsabilità individuale: le punizioni possono essere anche trasversali e colpire i parenti del responsabile di una mancanza anche assai lieve o persino immaginaria (p. 79). Ma cosa avviene per i crimini considerati più gravi? ½Mi raccontarono di un uomo che aveva rubato una lampada dorata al burro da uno dei templi di Kyirong. Fu dichiarato colpevole del reato, e quella che noi avremmo considerato una sentenza disumana fu portata a compimento. Gli furono pubblicamente mozzate le mani, e il suo corpo mutilato ma ancora vivo fu avvolto in una pelle di yak bagnata. Quando smise di sanguinare, venne gettato in un precipizio? (p. 75). Ma anche reati minori, ad esempio ½il gioco d’azzardo?, possono essere puniti in modo spietato se commessi nei giorni di festività solenni: ½i monaci sono a tale riguardo inesorabili e molto temuti, perché più di una volta è avvenuto che qualcuno sia morto sotto la rigorosa flagellazione, la pena usuale? (pp. 153-3). La violenza più selvaggia caratterizza i rapporti non solo tra ½semidei? e ½esseri inferiori? ma anche tra le diverse frazioni della casta dominante: ai responsabili delle frequenti ½rivoluzioni militari? e ½guerre civili? che caratterizzano la storia del Tibet pre-rivoluzionario (l’ultima si verifica nel 1947), vengono fatti ½cavare gli occhi con una spada? (pp. 224-5). E, tuttavia, il nostro zelante convertito al lamaismo non si limita a dichiarare che ½le punizioni sono piuttosto drastiche, ma sembrano essere commisurate alla mentalità della popolazione? (p. 75). No, il Tibet pre-rivoluzionario è ai suoi occhi un’oasi incantata di non violenza: ½Dopo un po’ che si è nel paese, a nessuno è più possibile uccidere una mosca senza pensarci. Io stesso, in presenza di un tibetano, non avrei mai osato schiacciare un insetto soltanto perché mi infastidiva? (p. 183). In conclusione, siamo in presenza di un ½paradiso? (p. 77). Oltre che di Harrer, questa è l’opinione anche del Dalai Lama che nel suo ½Messaggio? finale si abbandona ad una struggente nostalgia degli anni vissuti da Dio-Re: ½ricordiamo quei giorni felici che trascorremmo assieme in un paese felice? (happy) ovvero, secondo la traduzione italiana, in ½un paese libero?.
2. ½Invasione? del Tibet e tentativo di smembramento della Cina
Questo paese ½felice? e ½libero?, questo ½paradiso? viene trasformato in un inferno dall’½invasione? cinese. Le mistificazioni non hanno mai fine. Ha realmente senso parlare di ½invasione?? Quale paese aveva riconosciuto l’½indipendenza? del Tibet e intratteneva con esso relazioni diplomatiche? In realtà, ancora nel 1949, nel pubblicare un libro sulle relazioni Usa-Cina, il dipartimento di Stato americano accludeva una mappa di per sé eloquente: con tutta chiarezza sia il Tibet che Taiwan vi figuravano quali parti integranti del grande paese asiatico, impegnato a porre fine una volta per sempre alle amputazioni territoriali imposte da un secolo di aggressioni colonialiste e imperialiste. Naturalmente, con l’avvento dei comunisti al potere, cambia tutto, comprese le carte geografiche: ogni falsificazione storica e geografica è lecita se essa consente di ridare slancio alla politica a suo tempo iniziata con la guerra dell’oppio e di avanzare cioè in direzione dello smembramento della Cina comunista.
E’ un obiettivo che sembra sul punto di realizzarsi nel 1959. Con un cambiamento radicale rispetto alla politica seguita sino a quel momento, che l’aveva visto collaborare col nuovo potere insediatosi a Pechino, il Dalai Lama sceglie la via dell’esilio e comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza del Tibet. Si tratta realmente di una rivendicazione nazionale? Abbiamo visto che il Dalai Lama stesso non è di origine tibetana ed è costretto ad imparare una lingua che non è la sua lingua materna. Ma concentriamo pure la nostra attenzione sulla casta dominante autoctona. Per un verso questa, nonostante la generale ed estrema miseria del popolo, pu? coltivare i suoi raffinati gusti cosmopoliti: ai suoi banchetti si scialacquano ½squisitezze di tutte le parti del mondo? (pp. 174-5). A degustarle sono raffinati parassiti che, nell’ostentare il loro sfarzo, non danno certo prova di ristrettezza provinciale: ½le volpi azzurre vengono da Amburgo, le perle coltivate dal Giappone, le turchesi via Bombay dalla Persia, i coralli dall’Italia e l’ambra da Berlino e K÷nigsberg? (p. 166). Ma mentre si sente affine all’aristocrazia parassitaria di ogni angolo del mondo, la casta dominante tibetana guarda ai suoi servi come ad una razza diversa e inferiore; sì, ½la nobiltà ha le sue leggi severe: è permesso sposare soltanto chi è dello stesso rango? (p. 191). Che senso ha allora parlare di lotta di indipendenza nazionale? Come possono esserci una nazione e una comunità nazionale se, per riconoscimento dello stesso candido cantore del Tibet pre-rivoluzionario, i ½semidei? nobiliari, lungi dal considerare concittadini i loro servi, li bollano e li trattano quali ½esseri inferiori? (pp. 170 e 168)?
D’altro canto, a quale Tibet pensa il Dalai Lama, allorché comincia ad agitare la bandiera dell’indipendenza? E’ il Grande Tibet, che avrebbe dovuto abbracciare vaste aree al di fuori del Tibet propriamente detto, annettendo anche le popolazioni di origine tibetana residenti in regioni come lo Yunnan e il Sichuan, da secoli parte integrante del territorio della Cina e talvolta culla storica di questa civiltà multisecolare e multinazionale. Chiaramente, il Grande Tibet costituiva e costituisce un elemento essenziale del progetto di smembramento di un paese che, a partire dalla sua rinascita nel 1949, non cessa di turbare i sogni di dominio mondiale accarezzati a Washington.
Ma cosa sarebbe successo nel Tibet propriamente detto se le ambizioni del Dalai Lama si fossero realizzate? Lasciamo pure da parte i servi e gli ½esseri inferiori? a cui chiaramente non prestano molta attenzione i seguaci e i devoti di Sua Santità. In ogni caso, il Tibet pre-rivoluzionario è una ½teocrazia? (p. 169): ½un europeo difficilmente è in grado di capire quale importanza si annetta al più piccolo capriccio del Dio-Re? (p. 270). Sì, ½il potere della gerarchia era illimitato? (p. 148), ed esso si esercitava su qualunque aspetto dell’esistenza: ½la vita delle persone è regolata dalla volontà divina, i cui unici interpreti sono i lama? (p. 182). Ovviamente, non c’è distinzione tra sfera religiosa e sfera politica: i monaci permettevano ½alle tibetane le nozze con un mussulmano solo alla condizione di non abiurare? (p. 169); non era consentito convertirsi dal lamaismo all’Islam. Assieme ai rapporti matrimoniali anche la vita sessuale conosce una regolamentazione occhiuta: ½per gli adulteri vigono pene molto drastiche, ad esempio il taglio del naso? (p. 191). E’ chiaro: pur di smembrare la Cina, Washington non esitava a montare in sella al cavallo fondamentalista del lamaismo integralista e del Dalai Lama.
Ora, anche Sua Santità è costretto a prenderne atto: il progetto secessionista è sostanzialmente fallito. Ed ecco allora le dichiarazioni per cui ci si accontenterebbe dell’½autonomia?. In realtà, il Tibet è da un pezzo una regione autonoma. E non si tratta di parole. Già, nel 1998, pur formulando critiche, Foreign Affairs, la rivista americana vicina al Dipartimento di Stato, con un articolo di Melvyn C. Goldstein, si è lasciata sfuggire riconoscimenti importanti: nella Regione Autonoma Tibetana il 60-70% dei funzionari sono di etnia tibetana e vige la pratica del bilinguismo. Naturalmente, c’è sempre spazio per miglioramenti; resta il fatto che, in seguito alla diffusione dell’istruzione, la lingua tibetana è oggi parlata e scritta da un numero di persone ben più elevato che nel Tibet pre-rivoluzionario. E’ da aggiungere che solo la distruzione dell’ordinamento castale e delle barriere che separavano i ½semidei? dagli ½esseri inferiori? ha reso possibile l’emergere su larga base di un’identità culturale e nazionale tibetana. La propaganda corrente è il rovesciamento della verità.
Mentre gode di un’ampia autonomia, il Tibet, grazie anche agli sforzi massicci del governo centrale, conosce un periodo di straordinario sviluppo economico e sociale. Assieme al livello di istruzione, al tenore di vita e alla durata media della vita cresce anche la coesione tra i diversi gruppi etnici, come è confermato fra l’altro dall’aumento dei matrimoni misti tra han (cinesi) e tibetani. Ma proprio ci? diventa il nuovo cavallo di battaglia della campagna anticinese. Ne è un esempio clamoroso l’articolo di Bernardo Valli su la Repubblica del 29 novembre. Mi limito qui a citare il sommario: ½L’integrazione tra questi due popoli è l’ultima arma per annullare la cultura millenaria del paese sul tetto del mondo?. Chiaramente, il giornalista si è lasciato abbagliare dall’immagine di un Tibet all’insegna della purezza etnica e religiosa che è il sogno dei gruppi fondamentalisti e secessionisti. Per comprenderne il carattere regressivo, basta ridare la parola al cronista che ha ispirato Hollywood. Nel Tibet pre-rivoluzionario, oltre ai tibetani e ai cinesi ½si possono incontrare anche lhadaki, bhutanesi, mongoli, sikkimesi, kazaki e via dicendo?. Sono ben presenti anche i nepalesi: ½Le loro famiglie rimangono quasi sempre nel Nepal, dove anche loro ritornano di tanto in tanto. In questo differiscono dai cinesi, che sposano volentieri donne tibetane, conducendo una vita coniugale esemplare? (pp. 168-9). La maggiore ½autonomia? che si rivendica, non si sa bene se per il Tibet propriamente detto ovvero per il Grande Tibet, dovrebbe comportare anche la possibilità per il governo regionale di vietare i matrimoni misti e di realizzare una purezza etnica e culturale che non esisteva neppure prima del 1949?
3. La cooptazione del Dalai Lama nell’Occidente e nella razza bianca e la denuncia del pericolo giallo
L’articolo di Repubblica è prezioso perché ci permette di cogliere la sottile vena razzista che attraversa la campagna anticinese in corso. Com’è noto, nel ricercare le origini della razza ½ariana? o ½nordica? o ½bianca?, la mitologia razzista e il Terzo Reich hanno spesso guardato con interesse all’India e al Tibet: è di qui che avrebbe preso le mosse la marcia trionfale della razza superiore. Nel 1939, al seguito di una spedizione delle SS l’austriaco Harrer giunge nell’India del nord (oggi Pakistan) e di qui poi penetra nel Tibet. Allorché incontra il Dalai Lama, subito lo riconosce e lo celebra come membro della superiore razza bianca: ½La sua carnagione era molto più chiara di quella del tibetano medio, e in qualche sfumatura anche più bianca di quella dell’aristocrazia tibetana? (p. 280). Del tutto estranei alla razza bianca sono invece i cinesi. Ecco perché è un evento straordinario la prima conversazione che Sua Santità ha con Harrer: egli si trovava ½per la prima volta solo con un uomo bianco? (p. 277). In quanto sostanzialmente bianco il Dalai Lama non era certo inferiore agli ½europei? ed era comunque ½aperto a tutte le idee occidentali? (pp. 292 e 294). Ben diversamente si atteggiano i cinesi, nemici mortali dell’Occidente. Lo conferma ad Harrer un ½ministro-monaco? del Tibet sacro: ½nelle antiche scritture, ci disse, si leggeva una profezia: una grande potenza del Nord muoverà guerra al Tibet, distruggerà la religione e imporrà la sua egemonia al mondo? (p. 141). Non c’è dubbio: la denuncia del pericolo giallo è il filo conduttore del libro che ha ispirato la leggenda hollywoodiana del Dalai Lama.
Torniamo alla foto di gruppo che ha concluso il suo recente viaggio in Italia. Fisicamente assenti ma idealmente ben presenti si possono considerare Richard Gere e gli altri divi di Hollywood, inondati di dollari per celebrare la leggenda del Dio-Re venuto dall’Oriente misterioso. E’ doloroso ammetterlo ma bisogna prenderne atto: è ormai da qualche tempo che, volte le spalle alla storia e alla geografia, una certa sinistra si rivela in grado di alimentarsi solo di miti teosofici e cinematografici, senza prendere le distanze neppure dai miti cinematografici più torbidi.
appare chiaro che le campagne pro-tibet promosse in occidente, unite alle campagne di boicottaggio delle olimpiadi, siano mosse ideologiche volte a contrastare la cina e i cinesi. i discorsi sui diritti umani, mai rispettati dalle autorità tibetane, sono usati in maniera del tutto strumentale.
l' obiettivo è lo smembramento etnico della cina al fine di indebolirne la forza politica, militare ed economica.